Una calma immobile nell'occhio del ciclone: la morte di Virginia Woolf
Scritto da: Redazione
Il 28 marzo 1941 Leonard Woolf trovò il bastone da passeggio di Virginia posato sull'argine del fiume Ouse. Il corpo della scrittrice fu recuperato soltanto tre settimane dopo. Di seguito un estratto da La morte di Virginia di Leonard Woolf, il capitolo della sua autobiografia dedicato alla scomparsa della moglie. La traduzione è di Paola Quarantelli.
È ovvio che, ripercorrendo il periodo che precedette il suicidio di Virginia, gli ultimi quattro mesi del 1940 e i primi tre dell’anno successivo, mi sono spesso chiesto perché non avessi avuto alcun presentimento prima dell’inizio del ’41. Qual era realmente lo stato della sua mente e della sua salute nell’autunno e all’inizio dell’inverno del 1940? All’epoca mi era sembrato, e continuo a pensarla così, che mentalmente si sentisse più calma e stabile e che anche di umore fosse più serena.
Quando ci si trova esattamente nell’occhio del ciclone, si gode di una calma mortale, mentre tutt’intorno il vento soffia furioso. È come se a Rodmell, nell’ultimo tratto del 1940, fossimo improvvisamente entrati nel centro silenzioso e immobile dell’uragano della guerra. Era una pausa e nulla di più, perché sapevamo che ci aspettava un’altra catastrofe; eravamo del tutto calmi e distesi, anche se un’invasione incombeva minacciosa su di noi e ci assediavano bombardamenti e incursioni. Il fatto è che in parte ci sentivamo tagliati fuori fisicamente e socialmente, come fossimo soli in un deserto. Eravamo stati costretti a lasciare Londra a causa dei bombardamenti. Da novembre cominciammo a centellinare ogni goccia di benzina e non fu più possibile andare a Londra in macchina, e anche viaggiare in treno era diventato davvero troppo pesante.
Tutto questo significò che per la prima volta nella nostra vita io e Virginia ci sentimmo dei campagnoli, dei paesani. E un’altra novità fu che ci ritrovammo del tutto privi di servitù nel senso vittoriano del termine. Il fatto di ritrovarci senza servitù, senza più la responsabilità di nessuno oltre a noi, accrebbe la sensazione di libertà e di calma immobile nell’occhio del ciclone.
Tale quiete in parte derivava anche dalla routine di una vita piacevolmente monotona. Lavoravamo tutta la mattina, poi pranzavamo; nel pomeriggio facevamo una passeggiata o un po’ di giardinaggio, giocavamo a bocce, preparavamo la cena; la sera leggevamo, sentivamo un po’ di musica e poi andavamo a dormire.
Siamo così liberi, così tranquilli. Nessuna visita. Nessuno in casa. Pranziamo quando vogliamo. Viviamo in modo essenziale. Mi pare che siamo riusciti a dominare la vita con una certa abilità.
Io credo che la morte, la contemplazione della morte, fosse uno dei pensieri fissi di Virginia, sempre pronto ad affiorare. Era qualcosa che derivava dalla sostanziale mancanza di equilibrio della sua mente. Lei era «quasi innamorata della Morte benigna» 1. Io potevo capirlo solo intellettualmente; come emozione mi era invece del tutto estranea. Fino a quando non sono diventato vecchio, non ho quasi mai pensato alla morte. Sapevo che era inevitabile, ma fondamentalmente io sono fatalista.
Da anni ero abituato a riconoscere i segnali di avvertimento che dava la mente di Virginia; e i sintomi della crisi apparivano a poco a poco e con chiarezza: mal di testa, insonnia, difficoltà a concentrarsi. Avevamo imparato che poteva evitare il crollo solo mettendosi subito in uno stato di ibernazione, o in un bozzolo di tranquillità, al primo apparire dei sintomi. Ma questa volta non ci furono segnali di preavviso. La depressione la travolse di colpo.
Venerdì 28 marzo 1941, lavoravo in giardino, pensando che lei fosse in casa. Ma quando all’ora di pranzo entrai dentro, lei non c’era. Trovai una sua lettera sulla mensola del camino del soggiorno.
Carissimo,
sono certa che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non mi riprenderò. Comincio a sentire le voci e non riesco a concentrarmi. E allora faccio quella che mi sembra la cosa migliore. Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata questa terribile malattia. Non ce la faccio più a lottare. So che sto rovinando la tua vita, che senza di me potresti lavorare. E lo farai, io lo so. Vedi che non riesco neppure a scriverlo in modo appropriato. Non posso rileggere. Quello che voglio dire è che devo a te tutta la felicità della mia vita. Con me tu sei stato del tutto paziente e incredibilmente buono. Voglio dirtelo, lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, quello saresti stato tu. Ho perso tutto tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita.
Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di come lo siamo stati noi.
V. 2
Quando non riuscii a trovarla né in casa né in giardino, fui certo che fosse andata al fiume. Attraversai di corsa i campi e quasi subito trovai il suo bastone da passeggio posato sull’argine. Dopo averla cercata per un po’, tornai a casa e chiamai la polizia. Il suo corpo fu recuperato tre settimane più tardi, dopo che alcuni bambini lo avevano visto galleggiare nel fiume.
L’orribile procedura di identificazione e l’inchiesta si svolsero nell’obitorio di Newhaven il 18 e il 19 aprile. Vi andai da solo. Una volta le avevo detto che la musica più adatta a una cremazione era la cavatina del quartetto in Si bemolle maggiore opera 130 di Beethoven. Durante le cremazioni c’è un momento in cui le porte del forno si aprono e la bara scivola dentro lentamente, e a metà della cavatina c’è un punto in cui per poche battute la bellissima melodia sembra assumere una dolce andatura pulsante: se i due momenti coincidono può sembrare che il defunto venga dolcemente spinto nell’eternità dell’oblio. Virginia era d’accordo con me. Per la musica di accompagnamento delle nostre cremazioni, della mia come della sua, avevo pensato che la cavatina, ben sincronizzata con l’apertura delle porte, fosse adatta a condurci verso l’oblio eterno.
Quando diedi disposizioni per il funerale di Virginia, avrei voluto predisporre anche questo, ma non ci riuscii. In parte perché, quando salii nella parte alta del paese per parlare con il vecchio decano che conoscevo da quasi venticinque anni e prendere accordi sul funerale, non riuscii a discuterne con lui e risultò ugualmente impossibile che lui potesse procurare un accompagnamento musicale. D’altra parte il prolungato orrore delle settimane precedenti aveva determinato in me una specie di inerte anestesia. Ero così sfinito e abbattuto che sembravo un animale braccato che si trascina esausto fino alla tana o al suo covo solo grazie all’istinto. In effetti alla cremazione (con mia grande sorpresa) risuonò la
«Danza degli spiriti beati» dall’Orfeo ed Euridice di Gluck nel momento in cui si aprirono le porte e la bara sparì. Alla sera ascoltai la cavatina.
Seppellii le ceneri di Virginia ai piedi del grande olmo nel prato che si affaccia sopra il campo e le marcite, il Piccolo podere. Là avevano intrecciato i loro rami due grandi olmi che avevamo chiamato Leonard e Virginia. Ai primi di gennaio del ’43 uno dei due fu abbattuto da una forte burrasca di vento.
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1
John Keats, Ode a un usignolo.
2
Più tardi, sul blocco per scrivere nel suo studio, ho trovato la lettera che riporto qui sotto. Alle undici della mattina del 28 marzo ero entrato nel suo studio per salutarla e l’avevo trovata che scriveva sul blocco. Lei entrò in casa con me, lasciando il blocco nella sua stanza. Immediatamente dopo, io credo, deve aver scritto la lettera indirizzata a me che ho trovato sulla mensola del caminetto (e una lettera a Vanessa).
Carissimo,
ci tengo a dirti che tu mi hai donato una felicità completa. Nessuno avrebbe potuto fare più di quello che hai fatto tu. Ti prego di credermi. Io so purtroppo che non potrò mai superare questo momento e che sto rovinando la tua vita. Nessuno potrà convincermi del contrario. Tu puoi lavorare e starai molto meglio senza di me. Vedi che non posso nemmeno scriverlo, cosa che dimostra che ho ragione. Desidero che tu sappia che, fino a che non mi è piombata addosso questa malattia, noi siamo stati perfettamente felici. Il merito è tutto tuo. Nessuno avrebbe potuto essere buono quanto lo sei stato tu dal primo giorno fino a ora. Tutti lo sanno.
V.
Troverai le lettere di Roger a Mauron nel cassetto della scrivania della dependance. Puoi distruggere tutte le mie carte?
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