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Febbraio 2023
La storia dell’amore… animale! Un’intervista a Roberto Marchesini

La storia dell’amore… animale! Un’intervista a Roberto Marchesini

Scritto da: Redazione

Quando ci accingiamo a parlare di “amore per gli animali”, veniamo solitamente ricambiati da un sorrisino benevolo, quasi si trattasse di un “piacevole quanto inutile e leggero passatempo”, un tema troppo spesso banalizzato in termini di buonismo o comunque derubricato ad argomento per i soliti discorsi animalisti. 

Dietro un titolo apparentemente semplice qual è L’amore per gli animali scopriamo invece l’acuta analisi di Roberto Marchesini, approfondita da molteplici punti di vista - filosofico, antropologico, scientifico, etologico, con cenni perfino di psicologia e pedagogia - della natura e dell’origine di un sentimento che non a caso si può definire “amore”, “passione”, per i suoi profili di irrazionalità, ambivalenza e ibridazione.

Un amore che affonda le radici nella notte dei tempi, nell’infanzia dell’umanità, nelle popolazioni del Paleolitico e che ha lasciato traccia in tutte le espressioni culturali dell’umanità.

Come mai quando guardiamo il cielo vediamo uno zoodiaco? Da cosa deriva la nostra tendenza a vedere animali nelle costellazioni, nelle nuvole, nei sogni, nella nostra fantasia, dove il mondo si popola di arpie, centauri, licantropi, vampiri? Insomma, come mai siamo talmente affascinati dal mondo animale da non riuscire a fare a meno di esprimerci attraverso simbologie animali?

«La fascinazione animale ha radici nelle caratteristiche innate della fisiologia umana, maestoso sviluppo del sistema nervoso centrale, e non è da ricondursi al carattere venatorio dell’essere umano (Paul Shepard), o a un significato prevalentemente affettivo-parentale, alla James Serpell, né tanto meno alla passione per l’estetica animale, come la voleva Edward Wilson. 

Piuttosto direi che la risposta stia nel concetto di “zootropia”, ossia il nostro rapporto con gli animali è strettamente connesso al desiderio, nel senso che l’uomo si orienta verso l’alterità animale alla ricerca di un’indicazione o di una fonte proprio come una pianta cerca la luce.

“Zootropia” implica: “referenzialità”, nel senso che per l’uomo l’animale è un punto di riferimento, una stella polare che merita interesse e suscita meraviglia; ed “epifania”, ossia un momento di rivelazione ontologica che l’essere umano riceve osservando l’alterità animale e che gli consente di cercare la propria identità nonché di sognare nuove dimensioni esistenziali. Vedere il volo di un uccello significa non solo avere un modello che ci esemplifica come si fa a volare, ma anche e soprattutto sapere che si può volare. Ciò crea un legame che può assumere declinazioni differenti a seconda delle motivazioni implicate, le quali rappresentano “volani di relazione” che ci portano a intrattenere con gli animali diverse dimensioni di relazione, che nulla hanno a che fare con la mera ragione strumentale del “buono da”, quanto piuttosto generano una dipendenza dal riferimento animale, riscontrabile in tutte le produzioni culturali dell’uomo. 

Proprio dalla constatazione che gli animali sono onnipresenti in tutte le espressioni culturali dell’umanità, e che la cultura è “un’immensa raccolta di prestiti animali”, si può dunque ribaltare il pregiudizio secondo cui la cultura sarebbe prerogativa esclusiva dell’essere umano in contrapposizione alle altre specie animali?

«Esiste un grave pregiudizio antropocentrico tipico della distorsione umanistica occidentale, secondo cui l’essere umano rappresenterebbe un’unica categoria in contrapposizione a quella costituita dagli animali: così argomentando, dimentichiamo che nella presunta categoria oppositiva all’uomo figurano sia le spugne (organismi privi di neuroni) e le meduse (prive di un sistema nervoso organizzato), sia il bonobo, il quale condivide con l’essere umano il 99% del patrimonio genetico; d’altro canto, non tutti gli esseri umani possiedono la complessità narrativa di Dostoevskij o l’intelligenza di Einstein!

Ragionare in termini di dicotomia uomo-animale è, quindi, gravemente fuorviante: dovremmo, piuttosto, riferirci alle categorie dei mammiferi, degli uccelli, dei rettili, anfibi, dei pesci e così via, per poi riconoscere l’essere umano quale mammifero, animale non speciale ma semplicemente specifico. Ne consegue che, se è scorretto rendere il proprio cane un feticcio affettivo plasmato in base alle nostre esigenze umane, non è scorretto dire che un cane ama i propri cuccioli perché il cane è un mammifero dotato di sensibilità epimeletica proprio come lo è l’essere umano.

La filosofia postumanista è basata sul rifiuto di alcuni principi cardine dell’umanesimo come il concetto di cultura quale emanazione dell’uomo: riconoscendo come l’animalità abbia sempre abitato l’arte e più in generale la dimensione culturale, la filosofia postumanista prende atto di come l’uomo si sia realizzato attraverso la relazione con le altre specie, andando oltre se stesso attraverso la sperimentazione di nuovi profili esistenziali.

È così che l'amore per gli animali si è manifestato con infinite forme nella storia dell’umanità?

«Esatto. Fin dalla pittura rupestre del Paleolitico, l’imprinting artistico derivante dall’incontro con l’animale ha influenzato ogni altra forma di arte, dunque i costumi rituali, perfino i tatuaggi, le arti marziali, la mitologia, la religione, la musica, il cinema, la danza, la tecnologia, i fumetti… insomma ogni espressione della cultura di cui la “spocchia antropocentrica” crede di essere esclusiva artefice. 

Nella letteratura l’arte di inventare animali (“zoopoiesi”) consente addirittura di parlare di generi “zoonarrativi”: i racconti che contemplano la presenza di protagonisti o comparse animali sono così tanti da abbracciare tutta la letteratura, per cui qualunque resoconto che si volesse intraprendere peccherebbe di estrema parzialità. Virgilio descrive il pianto dell’usignolo per i suoi piccoli perduti; nel Passero solitario Giacomo Leopardi esprime la solitudine del poeta; nella figura della rondine uccisa mentre porta il pasto al suo nido, Giovanni Pascoli ricorda il padre ucciso il 10 agosto mentre tornava a casa.

L’animale è un’occasione per realizzare una metamorfosi che diventa la chiave di lettura di una condizione umana: ne L’asino d’oro Apuleio mostra la condizione umana nella sua meschinità, vista attraverso gli occhi di un asino; ne La metamorfosi di Kafka la trasformazione in uno scarafaggio consente al protagonista di percepire la propria alienazione all’interno della società e perfino della propria famiglia. Ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson l’animalità simboleggia la tracotanza dello scienziato, che ritroviamo anche nel Frankenstein di Mary Shelley.

L’animale rivelatore rappresenta lo spirito guida in grado di rivelare i percorsi e le prove che il protagonista deve superare, lo si ritrova nel Bianconiglio di Alice, nel grillo parlante di Pinocchio così come nello sciamanesimo dei nativi americani.

L’animale può essere anche lo specchio oscuro su cui proiettare gli aspetti negativi di cui l’essere umano vorrebbe liberarsi, come il quadro nascosto di Dorian Gray nel romanzo di Oscar Wilde oppure può avere il compito di rivelare le qualità negative dell’essere umano, come ne La Fattoria degli animali di George Orwell, dove quattro zampe è buono e “due zampe cattivo”. 

Tornando al concetto di motivazione, il prendersi cura dei cuccioli di altre specie (adozione transpecifica) e l’attitudine ad essere attratti da loro, adottandoli e mettendo in atto comportamenti genitoriali, è sicuramente un tratto caratterizzante l’essere umano, al punto da poterlo definire “homo epimeleticus”. La motivazione epimeletica è tipica dei mammiferi?

Essa la si ritrova da sempre in tutte le culture ed è talmente radicata nell’essere umano da aver dato vita ad una vicenda evoluzionistica che, attraverso la domesticazione del lupo e poi del cane, ha rappresentato uno dei tasselli fondamentali dello sviluppo culturale della società umana. La domesticazione è paragonabile alla scoperta del fuoco, è patrimonio dell’umanità. 

La pratica di domesticazione del cane – che, si noti bene, nasce proprio come momento adottivo di tipo parentale e solo in seguito mostra le sue potenzialità nell’utilizzo delle doti ausiliarie dell’animale - ha aperto la strada ai successivi processi domesticativi degli animali da tiro come i bovini, poi degli asini e cavalli, consentendo i trasporti ed il commercio, poi delle pecore e capre dando vita alla pastorizia, infine dei suini e del pollame, realizzando eventi di “ibridazione” che hanno reso l’uomo sempre più dipendente dall’alterità animale per raggiungere dimensioni esistenziali ormai totalmente assimilate all’interno della condizione umana.

Questa relazione genuina e diretta con l’alterità animale purtroppo si è progressivamente perduta con l’avvento della cultura urbana in Europa a partire dal secondo dopoguerra, circa 80 anni fa: dalla società rurale, dove gli animali venivano sì accuditi per esigenze umane, ma sempre con amore e rispetto perché dalla loro produttività dipendeva la vita dell’intera famiglia, si è poi passati ad una società urbana dove gli animali che hanno fatto la storia dell’umanità sono di colpo spariti di scena e la campagna è diventata silenziosa, ammorbata da diserbanti, pesticidi, dalle emissioni inquinanti degli allevamenti intensivi, dove gli animali vengono rinchiusi in capannoni e sottoposti ad un regime produttivo esasperato.  

Dunque l’argomento dell’innata sensibilità parentale dell’uomo può essere utile allo smantellamento del pregiudizio, così diffuso, secondo cui al giorno d’oggi si fanno meno figli perché si amano troppo gli animali “d’affezione”. Oppure è vero che i pets sarebbero diventati un surrogato dei figli al punto da poter rinvenire in questa forma di amore una causa del calo delle nascite?

La tendenza ad adottare cuccioli di altre specie non è tipica della nostra opulenta società occidentale, ma è presente fin dal Paleolitico in tutte le comunità umane: le cure che dedichiamo ai nostri animali familiari accontentano a malapena un bisogno che ha radici remote e che ha poco a che fare col calo delle nascite, tant’è che sono proprio le famiglie con bimbi che ospitano con più facilità un animale. Molto probabilmente l’eccesso genitoriale e quei comportamenti paradossali che possiamo osservare nascono da un deficit di possibilità espressive, piuttosto che da un effetto surrogativo, deficit che è la conseguenza di quel procedimento di progressiva “dimenticanza” delle altre specie causato dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione. Ancora peggiore della semplificazione meccanicistica cartesiana è la deriva antropomorfista cui si è giunti con la tradizione disneyana, perché induce subdolamente forme di negligenza più sotterranee, spacciandole per magnificazione: gli animali sono divenuti maschere su cui proiettare le aspettative umane rispetto alla conoscenza reale di ciò che è diverso e autentico. Le altre specie sono state dimenticate, trasformate in presenze che s’aggirano nelle fiabe e nei fumetti, ma assenti nell’incontro reale, oppure sono ridotte a maschere e costrette a interpretare commedie, quelle dei pet, o tragedie, quelle degli allevamenti industriali. Ormai la natura entra nella vita dei bambini attraverso i giocattoli e i fumetti; col proprio cane o col proprio gatto si hanno relazioni affettive che non contemplano né ammirano la diversità perché sono fondate sulla antropomorfizzazione dell’animale per renderlo adatto alle nostre esigenze e aspettative. Le persone sono sempre più chiuse in se stesse, passano la vita assorbite nei media digitali ed estraniate dal rapporto vero con la natura, con la lettura, con la musica. Serve una nuova “educazione sentimentale”, occorre ricostruire legami conviviali con le altre persone, con gli altri animali, con la natura. Henry D. Thoreau sottolineava l’importanza di un ritorno dell’uomo alla natura nel suo Walden ovvero Vita nei boschi, le cui citazioni sono state rese famose dal celebre film «L’attimo fuggente». Tutte le relazioni oggi sono in grande crisi, la relazione col cane è diversa dalla relazione col gatto, la relazione coi genitori è diversa da quella coi nonni, così come quella d’amore è diversa dalla relazione di amicizia. Bisognerebbe riscoprirle tutte nella loro genuinità e diversità.

In che senso la relazione con l'animale rappresenta un «volano evolutivo che non solo rafforza le disposizioni creative e immaginative del bambino, ma altresì lo sollecita a fare nuove esperienze, lo proietta in nuove dimensioni esistenziali, gli allarga l'orizzonte di sviluppo, gli dona nuove opportunità esperienziali?»

Nel bambino da 0 a 5 anni l’interesse per gli animali ha una rilevanza tale da meritare l’attenzione di psicologi e pedagogisti; l’incontro con l’animale è per il bambino un evento indimenticabile, un’avventura da condividere con gli altri, l’animale è l’amico immaginario che fa sognare a occhi aperti, consente di dare libero sfogo alla fantasia, dona ali per volare in alto, oltre ogni consuetudine e verso ogni futuro possibile. La relazione con l’animale consente al bambino di sperimentare la diversità, la somiglianza nella differenza che è molto produttiva dal punto di vista pedagogico perché il bambino si riconosce nell’animale come guardandosi attraverso una specchio, per i caratteri di spontaneità, ingenuità autenticità che sono propri ad entrambi e che poi spariscono nel mondo degli adulti. Il bambino non fa altro che esprimere in modo immediato e autentico, ossia al netto di tutte quelle sovrastrutture di cui verrà caricato dall’adulto, un orientamento elettivo verso gli animali che andrebbe coltivato quale vera e propria forma di “educazione sentimentale”: quanto più si riducono questi spazi, tanto minore sarà la possibilità del bambino di realizzare la propria identità. Il rapporto con le altre specie non deve essere derubricato a sciocchezza perché si tratta di un aspetto centrale nella formazione della persona. L’aspetto performativo, ossia la formazione delle conoscenze professionali, dovrebbe essere secondario rispetto alla formazione della persona.

Un altro concetto molto potente è quello di “meraviglia”: in che senso la meraviglia è qualcosa di così coinvolgente da superare la dimensione puramente estetica?

La meraviglia che proviamo dinanzi al mondo animale è uno stupore unito a sgomento per qualcosa che ci affascina ma anche spaventa, è il thaumazein aristotelico o il sublime di Edmund Burke, l’orrendo che affascina, crea estasi e vertigine per il fatto di trovarsi dinanzi a qualcosa di immenso: in questo senso l’animale ci impressiona e suscita un turbamento che sconvolge. La meraviglia è un aspetto fondamentale dell’apprendimento, non basta subire passivamente una lezione per imparare un concetto, noi apprendiamo nella misura in cui siamo affascinati, coinvolti, scossi: dovrebbe essere questo un aspetto fondamentale della pedagogia. Nella tradizione l’animale non era affatto banalizzato, un tempo la meraviglia ci scuoteva dalle fondamenta esistenziali realizzando cambiamenti che trasformavano, arricchendolo, l’essere umano. Il grande problema di oggi è la relazione, la conoscenza, ma anche la banalizzazione: il pet non suscita più meraviglia, stupore.

La bellezza, in natura, non è mai fine a se stessa, non è mai avulsa dal rapporto funzionale, in quanto il corpo di ogni animale è il frutto di un lungo processo di rifinitura adattativa che premia i soggetti che hanno più possibilità di sopravvivere alle sfide ambientali e un maggior tasso riproduttivo. 

Ogni animale si presenta all’appuntamento della vita non solo ben equipaggiato dal punto di vista somatico, ma anche dotato di una sapienza innata, che non richiede istruzioni aggiuntive nell’adeguare l’ambiente alle proprie necessità. Non può non meravigliare la forma-funzione di una ragnatela, di un termitaio, di un alveare, l’operosità che consente a una formica di fare provviste o la capacità idraulica di un castoro.

Ebbene, attraverso la “zoomimesi”, ossia l’imitazione, l’essere umano ha imparato dagli animali la loro scienza infusa che non richiede maestri e apprendistati, ed ha quindi tradotto in tecnologia le prestazioni, le eccellenze performative, le soluzioni già collaudate in natura dalle altre specie animali: ispirandosi alla biomeccanica del volo degli uccelli Leonardo da Vinci creò il famoso ornitottero, ma sono innumerevoli le invenzioni umane tradotte in modo diretto dall’animale, si pensi ad esempio alle tute alari ispirate dallo scoiattolo volante, all’alta velocità giapponese ispirata al martin pescatore, alle tute antigravità pensate sul modello del corpo delle libellule, alla lamiera ondulata che riprende la struttura della capasanta, alla fusoliera degli aerei ispirata dalla silhouette di grossi pesci. Si pensi che il software di vita artificiale utilizzato nei film di animazione e nei videogiochi è stato creato osservando il movimento allineato degli animali, ossia dei grandi stormi degli uccelli, dei banchi di pesci, degli sciami di insetti.

Dunque la zoomimesi ha caratterizzato la storia dell’umanità, regalandoci quei frutti che con la consueta arroganza l’uomo si attribuisce in modo autarchico e non c’è giorno in cui l’essere umano non scopra una funzione biologica precedentemente ignorata che potrebbe fornire la risposta a problemi ancora irrisolti: questo rende ancora più grave la massiva distruzione della biodiversità che si sta consumando, poiché stanno scomparendo animali delle cui prestazioni siamo completamente all’oscuro. 

Saremo davvero così folli e incoscienti da consentire che una storia d’amore così antica e profonda, che affonda le proprie radici nella notte dei tempi e che ha consentito all’essere umano di raggiungere traguardi esistenziali diversamente inconcepibili, possa davvero concludersi con una “eutanasia”?

Sono scoraggiato, ma fiducioso nella possibilità di scuotere le coscienze e, quindi, non pessimista: che la causa sia da rinvenire nell’innata pericolosità dell’essere umano oppure nell’impostazione capitalista che sfrutta la natura come bene a buon mercato, quello che è certo è che l’attuale emergenza ecologica rappresenta una crisi epocale senza precedenti e che la dimenticanza di una radice comune e di una coappartenenza al mondo animale ha determinato una grave lontananza affettiva (“zoo-apatia”), proprio come accade in ogni grande amore al tramonto. 

Dovremmo capire una volta per tutte che la biosfera non è la nostra casa, ma il nostro corpo perché ne facciamo parte noi stessi: meno coltiveremo un genuino rapporto sentimentale con la natura, più la strada si rivelerà suicida. 

«Gli animali in quanto tali, e non le proiezioni che li hanno trasformati in maschere per una nuova commedia dell’arte, sono di fatto scomparsi dal nostro orizzonte e dai nostri interessi.
Non li vediamo, non li conosciamo, non proviamo più stupore, non siamo curiosi e non ci sentiamo carenti di conoscenze, se assenti non ne avvertiamo la mancanza: proprio come quando finisce un amore”.

• Intervista a cura di Michela Bertolozzi ( Nati Liberi Versilia ODV)


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