Siamo tutti profughi di una patria interiore
Scritto da: Redazione
In occasione della prima Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, pubblichiamo un estratto dal libro « Dove mi sento a casa» di Anselm Grün, traduzione di Giuliana Lupi.
Il tema della patria è diventato centrale dopo la seconda guerra mondiale a causa dei tanti profughi scacciati dalle terre natie. Tra il 1944 e il 1946 milioni di tedeschi della Prussia orientale, della Pomerania, della Slesia e della Boemia furono costretti a cercarsi una nuova patria in Occidente, dove spesso non erano accolti a braccia aperte dalla popolazione rurale che, nella miseria del dopoguerra, li percepiva come un peso e una seccatura. Eppure, poiché erano stati defraudati di una patria, colsero tutte le opportunità di lavoro.
La ricostruzione della Germania dopo la guerra non sarebbe riuscita altrettanto bene senza l’impegno dei molti profughi che, integratisi nella nuova patria, ne trainarono lo sviluppo. Ciò nonostante, la nostalgia per la patria perduta si faceva sentire. Ogni anno venivano organizzati raduni di profughi nel corso dei quali spesso la patria era idealizzata.
Oggi vivono tra noi molte persone che hanno dovuto lasciare la loro patria: lavoratori stranieri, rifugiati, persone che hanno chiesto asilo politico. Ci sono poi i tanti costretti a trasferirsi spesso per motivi di lavoro. Per tutti l’interrogativo è dove si sentano a casa e che cosa significhi per loro la patria. Alcune emigrate turche vivono ancora a tal punto nella loro patria da non avvertire l’esigenza di apprendere la lingua del paese che le ospita. Altri si sentono a casa in Germania e non vogliono più tornare indietro. In chiunque abbia lasciato la sua patria, tuttavia, affiora la questione della patria interiore. Non può vivere semplicemente alla giornata, deve prendere coscienza della propria identità e di ciò che la patria gli dona.
Ildegarda di Bingen dice che l’arte di diventare uomini sta nella capacità di trasformare le ferite in perle. Ciò vale anche per chi non ha una patria. L’esperienza dell’esilio la facciamo tutti, anche se nessuno ci ha scacciato dalla terra natia. Talvolta ci sentiamo stranieri anche tra i nostri amici. Intuiamo che non possono essere la patria ultima. Se ci riconciliamo con la nostra mancanza interiore di una patria avvertiamo la solitudine altrui. Possiamo trasformare le ferite della nostra mancanza di una patria in perle offrendo un pezzo di patria a chi l’ha perduta.
Chi apre il proprio cuore a chi è solo, crea intorno a sé uno spazio in cui le persone sole possono sentirsi a casa.
L’uomo è per natura tanto bisognoso di una patria quanto esule. La Bibbia ha espresso questo concetto nella storia del paradiso terrestre. L’uomo parla spesso della propria patria come di un paradiso. Là si sentiva protetto. Là il mondo era ancora in ordine. Ma già la Bibbia ci dice che l’uomo è stato scacciato dal paradiso. Quando aprì gli occhi, quando non rispettò l’ordine del paradiso, per lui quel luogo perse l’atmosfera della patria e tutto gli divenne estraneo. La Terra non era più la sua patria. Dovette lavorare i campi con fatica. Noi ci troviamo nel ruolo di Adamo che non percepisce più la Terra come il giardino di casa, bensì come un luogo pieno di rovi e cardi. E siamo come Caino, che deve vagare inquieto senza trovare una patria. Caino dice a Dio: «Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra» (Genesi 4,14). È questa la situazione in cui ci troviamo oggi: scacciati dal paradiso della nostra patria, scacciati dal suolo che ci ha nutrito e al tempo stesso alla ricerca della patria perduta.
Friedrich Nietzsche l’ha descritta con grande efficacia nella sua poesia Lo spirito libero:
Senti i corvi crocchiare,
sciamando in frulli al vento verso città.
Presto verrà a nevicare,
beato chi ora ha – un suo posto da abitare.
Adesso stai a guardarti
da quanto tempo indietro ormai, qui fermo?
Pazzo che sei, tu parti
quando viene l’inverno – nel mondo a involarti!
Il mondo: un cancello
su mille fredde vie d’un deserto muto.
Ma chi ha perso quello
che tu hai perduto – non avrà quiete d’ostello.
Ora sei stanco e smunto,
condannato a migrare tra neve e gelo.
Sei come fumo espunto
che anela al più alto cielo – al più freddo punto.
Vola uccello e crocchia eterno
la tua canzone da uccello dei deserti!
Pazzo, cela all’esterno
la ferita che in cuore avverti – col gelo e con lo scherno!
Senti i corvi crocchiare,
sciamando in frulli al vento verso città.
Presto verrà a nevicare:
disgrazia per chi non ha un suo posto da abitare.
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È un paesaggio invernale. Noi siamo le porte dalle quali siamo usciti nel mondo subito prima dell’inverno. E adesso il mondo intero ci appare come un paesaggio freddo e aspro che ci gela il cuore. In esso non possiamo sentirci a casa. Avvertiamo di aver perso la patria. Perciò ci guardiamo indietro e ci sentiamo gelare. Poiché insieme alla patria abbiamo perduto noi stessi, non possiamo mai fermarci. Dobbiamo andare sempre avanti. Non è un vagabondare in un paesaggio familiare. Siamo «condannati a migrare tra neve e gelo». Non mostriamo più il nostro cuore, troppo ferito. Lo nascondiamo nel gelo e nello scherno. In questo freddo può resistere soltanto «chi ora ha – un suo posto da abitare». E aggiunge, rivolgendosi a coloro che la patria l’hanno perduta: «Disgrazia per chi non ha un suo posto da abitare». Questo non vale soltanto per i profughi, costretti dalla guerra a fuggire dalla terra natia.
Tutti noi, in fondo, siamo profughi, scacciati dalla nostra patria interiore.
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Immagine:
Cino / Flickr - CC BY-NC-ND 2.0
1 Traduzione di Gianni Celati in Lettera e poesia di accompagnamento a Franco Arminio, Viaggio nel cratere, Sironi editore, Milano 2003.
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Anselm Grün Traduzione di Giuliana Lupi |