
Parole nella polvere: romanzo poetico, libero e potente
Scritto da: Mario Arturo Iannaccone
Quando il poeta Robert Blair, poco prima di morire, scriveva La tomba (1743), sostando davanti alle tombe dei cari si disperava del silenzio dei morti:
«Diteci o morti! Nessuno fra voi vorrà raccontare il suo segreto a chi ha lasciato indietro?».
Nemmeno nella finzione poetica otteneva risposta. Intollerabile, quel silenzio lo percepiva anche James Hervey, che scriveva poco dopo Le tombe e le meditazioni (1745-1747). Thomas Gray, invece, con la sua Elegia scritta in un cimitero campestre (1751), consacrava il genere, inaugurando un gusto “sentimentale” e macabro nell’intera Europa.
Era la voga della poesia cimiteriale inglese, meditazioni sulla vanità che tanto piacquero da iniziare un filone di componimenti che attraversarono tutta l’epoca dei Lumi e s’ingrossò durante il Romanticismo. Da noi, gli amici Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte scrissero due carmi dallo stesso titolo, Dei Sepolcri e I Sepolcri, nel 1807, che avevano ispirazioni differenti ma formalmente erano simili. Anche per Foscolo e Pindemonte, come per Blair, Hervey e Gray parlano i vivi.
I morti sono passivi ricordi e i poeti sostano pensosi di fronte ai sepolti con le loro meditazioni filosofiche, religiose, sentimentali. Sono vivi e sfogano la loro immedicabile malinconia mentre la parola è proibita ai morti.
I morti ci parlano dalle pietre
Guardando più indietro di Blair o di Gray ci accorgiamo che la poesia (o la prosa) cimiteriale è antica quanto la letteratura.
Pensiamo alle parole delle iscrizioni funerarie romane, voci sgomente e addolorate per aver perduto per sempre la luce. Perché non esisteva speranza di rivedere una luce di qualsiasi tipo nell’Ade classica. Lì, in quel luogo eternamente oscuro, fetido, umido, tutti erano destinati a un’esistenza umbratile, l’eroe e il codardo, la giovane sposa e il bambino. E sul travertino i romani scrissero il lamento di chi fu strappato da chi li amò (le parole incise su quelle pietre, spesso, sono prestate ai morti). In quelle pietre corrose dal tempo si rievocano eredità contese, errori, l’orgoglio di vite ben vissute ma anche il rimpianto di chi è stato stroncato come fiore dall’aratro. Leggiamo anche di incidenti e malattie improvvise. Fu data loro voce in un bellissimo documentario fotografato da Vittorio Storaro, Imago Urbis, che pochi hanno avuto la fortuna di vedere e che ha fatto capire quanto vivace sia l’epigrafia funeraria latina.
La voce dei morti
La voce dei morti quando è stata udita era flebile: emergeva in un sogno, in una poesia, in una ballata o nelle bizzarre voci dei tanti medium che accesero il fenomeno dello spiritismo attorno al 1840 e lo spensero, misteriosamente, attorno al 1920. A lungo tacquero, forse per le cambiate situazioni di credenze e civiltà. Tranne che nei canti popolari.
Sono muti i morti ne Il Giro di vite di Henry James. Fu invece l’americana Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters a riportare in auge d’improvviso la poesia cimiteriale. Le sue voci, solo voci, dolenti e sarcastiche, melanconiche e disperate, irridenti e rabbiose, diventate un testo di culto per i beatnik, furono tradotte da Fernanda Pivano e musicate da Fabrizio de André. S’ispiravano all’epigrammatica sepolcrale classica. Confessioni, quelle dei defunti che dormono sulla dolce collina che guarda lo Spoon River, che hanno ancora un filtro classico e molto letterario. La loro schiettezza, come in Dante, è mediata da un episodio emblematico che li ha resi per sempre dei tipi o caratteri: la beona, il tirchio, il padre integerrimo, il geloso, la giovane illusa.
Parole nella polvere
Sorprendono allora le petulanti, vivaci, squillanti, irritanti voci che compongono la trama — o tessuto di dialoghi — di Parole nella polvere (Cre’ na Cille, 1949) di Máirtín Ó Cadhain (Martin O’Cain). Romanzo, è vero, non poesia o carme o poema; romanzo poetico, non realistico. I suoi stupefacenti interludi possono essere definiti pura, altissima, prosa poetica. Dal piccolo cimitero di Connemara situato vicino al mare — lo sappiamo perché si parla spesso di alghe e barche — s’alza un vociare spesso e concitato dalle tombe. Nulla ci raccontano dell’oltretomba perché sono pettegolezzi, ricordi, invettive, lamenti, amichevoli dialoghi o bisticci di comari. Nessun mistero si svela in ciò che dice questa strana folla di persone. Loro sono come noi ma non sono più come noi, perché costrette nel loro pezzetto di terra.
Questo libro strano, indimenticabile e potente è stato tradotto per la prima volta in Italia da Lindau nel 2017. È stato scritto in gaelico, lingua dei canti e del folklore, non lingua morta, sebbene raramente scelta dai letterati. È un romanzo sinfonico di temi e personaggi che appaiono, scompaiono, vengono ripresi più avanti, s’inabissano, tornano prepotenti in primo piano senza apparente ordine.
Seppellimenti per errore
I morti continuano a essere vivi e questo può sconcertare. Perché lo fanno? Sopravvive il loro spirito vitale, concupiscente? (come avrebbe detto un teosofo o anche un irlandese vecchio stampo).
Quanto all’ispirazione, Máirtín Ó Cadhain spiegò che non si era ispirato a nessuno.
Non a Masters, che pure era uscito nel 1915 con la sua raccolta. Nonostante certe somiglianze, i due testi, una raccolta di poesie e un romanzo poetico, sono diversissimi. Ó Cadhain racconta l’episodio che gli ispirò il romanzo: una donna seppellita per errore nella tomba di una sua vecchia nemica. Così, qualcuno commentò: «che cagnara faranno»; ma ciò non toglie che si possano trovare contaminazioni e derivazioni perché la vera letteratura è anche questo. E tuttavia, anche se si rifaceva, non sappiamo quanto inavvertitamente, a una tradizione di ballate antiche e popolari di morti inquieti che parlano e raccontano, le voci della collina sullo Spoon River, nella lavorata esemplarità delle loro vicende, hanno qualcosa dei suggelli danteschi, ritratti a sbalzo, che creano un “destino” che danna o salva.
Caitrióna Pháidín
In Parole nella polvere, le entità dialoganti pare possano spostarsi di poco, nemmeno possono scorgere quello che accade attorno alla loro fossa. Sanno e vedono quello che accade dentro ad essa: conoscono la propria bara e le vesti con cui sono stati seppelliti.
Tra loro emerge la ciarliera Caitrióna Pháidín, circondata da una corte di personaggi minori: la sorella Nellie, l’amica Muráed, Dotie, Nóra, il figlio Pádraíg, la nipote Máirín e suoi familiari e amici come «Peadar del pub», quello che per tutti «annacquava il whisky». Caitrióna è seppellita da tempo ed è avida delle novità. Vuole restare informata di ciò che accade nel mondo di sopra. Molti i defunti, che chiamano e interrompono. Caitrióna si preoccupa della bara nella quale è stata seppellita, di quanti soldi siano stati raccolti al suo funerale e di come sia stato il suo funerale: «Chi è venuto?», chiede. «Quelli della montagna? Quelli del Bosco di Lago?». Lo domanda a un nuovo arrivato, Seáiním Liam — ancora stupito di essere morto. Lei è sepolta in un lotto da 15 scellini invece che da 1 sterlina perché la sua famiglia ha risparmiato. Le piccole questioni di sopra vengono portate sotto da quelle voci che berciano, urlano, irridono o filosofeggiano e talvolta sentiamo vicine nella loro malinconia. Ricordano i perdigiorno di un cortile o d’un pub. Il piccolo cimitero di Connemara è un po’ la continuazione della vita, come nelle allucinazioni di Emanuel Swedenborg.
Questi morti quasi mai ricordano i loro ultimi istanti se la morte è stata improvvisa: di colpo si trovano lì. La loro morte è raccontata, talvolta: stavano facendo qualcosa di quotidiano e poi «uno strappo al fianco», un «buio improvviso», un «dolore» e tutto finisce (come non pensare, qui, a Domani nella battaglia pensa a me di Javier Marías?). La morte può essere così. Quando riaprono gli occhi — ma non hanno occhi — nella tomba possono capire se la bara che li rinchiude è scadente. Perché gli importa? Perché portano con sé le loro debolezze: la loro morte non è un passaggio di fuoco che trasforma e sublima. Tutto ciò che hanno lì, è la loro voce. E odono soltanto i morti. Per questo sono costretti a continuare vecchi litigi, a coltivare simpatie e rancori mai sopiti.
Interludi
Fanno persino progetti i morti di Parole nella polvere, come quella Nóra che pensa a come meglio diffondere la cultura. Sa di essere morta? Sì, ma non lo ammette. Per questo ogni tanto, per 10 volte, risuona la Tromba del Cimitero.
La Tromba zittisce il fitto chiacchiericcio dei morti ciarlieri che non vogliono essere morti. È una voce potente, perentoria, che incute timore. Ma è anche poetica: sorprende, commuove. Ci ricorda i medievali Ubi sunt o certe uscite folgoranti di François Villon: «Ditemi, dov'è quel paese,/ dov'è Flora, la bella romana […] Dove è la tanto saggia Eloisa, per la quale fu castrato il povero monaco Pietro Abelardo?» (François Villon, Le Testament, vv. 329-330; 337-339). «Sono la Tromba del Cimitero. Che risuoni la mia voce. Deve risuonare […]».
Cos’è questa voce ultraterrena che si annuncia in modo tanto molesto, squillando all’improvviso? È molesta ma tocca corde che tutti custodiamo: «Nel cimitero non esistono né tempo né vita. Né luce né oscurità. Non esistono alba, maree o cambiamento di tempo e clima. Le giornate non si allungano, né le Pleiadi e il grande Carro si manifestano; né le creature viventi si abbagliano col manto della Gioia e della festività. Non ci sono gli occhi vivaci dei bambini, né gli stravaganti desideri dei giovani, né le rosee gote delle fanciulle, né la dolce voce della madre affettuosa […] Occhi, desideri, gote, voci e sorrisi si dissolvono tutti in una massa amorfa nell’alambicco generoso della terra». È un Ubi Sunt classico, una Totentanz quello che viene cantato dalla misteriosa Tromba del Cimitero.
Pare richiamare un destino di pagana distruzione definitiva ma contemporaneamente allude al Giudizio Universale, e in questo sta il suo mistero.
«Qui nel cimitero lo spettro dell’Indifferenza profana le bare, dissotterra cadaveri e impasta le carni putrefatte nel suo gelido forno di terra. Poco gli importa delle guance vermiglie, della carnagione lattea e dei denti di perla che sono l’orgoglio della fanciulla. O del braccio nerboruto, dell’agile piede e dell’ampio torace che rendono fiero il giovane. O della lingua che incantava le masse con parole dolci e frasi seducenti. O della fronte che sfoggiava il lauro della vittoria. O della mente che un tempo fungeva da cometa ai marinai che salvavano il “vasto oceano della cultura” […] Perché non sono null’altro che bocconi prelibati della torta di nozze che apparecchia per la famiglia e i suoi aiutanti: la mosca, la larva e il verme» (p. 121).
È il più classico degli Ubi Sunt, questo interludio di Ó Cadhain.
Itinerario
Senza apparente ordine, si era detto. Eppure i capitoli si intitolano: Terra nera, terra sparsa, terra rivoltata, terra sgretolata, terra concimata, terra impastata, terra plasmata, terra cotta, terra levigata, terra imbiancata.
Come si può intuire dalle 10 sezioni che compongono il libro e dai 10 Interludi che le inframmezzano, esiste un’evoluzione nel dialogo di questi morti, forse anche nella loro consapevolezza. Da Terra nera a Terra imbiancata… Máirtín Ó Cadhain ce lo fa intuire.
Al lettore, il piacere di scoprirlo nelle pagine di questo romanzo unico, libero e potente.
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Máirtín Ó Cadhain
Sabato 9 giugno alle ore 11 - Palermo
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