La mia Berlino, sulle tracce di Billy Wilder
Scritto da: Silvia Verdiani
Silvia Verdiani, traduttrice de Il principe di Galles va in vacanza, ci racconta la sua esperienza di Berlino, creativa e «avventurosa» come quella del grande regista.
È all’Eden-Hotel, che Billy Wilder lavora come ballerino a pagamento alla fine degli anni ’20.
Situato nel cuore della città, sul Kurfürstendamm al numero 246/247, proprio all’angolo fra Budapester Straße / Kurfürstenstraße / Nürnberger Straße di fronte allo ZooAquarium, l’albergo è un importante punto di ritrovo per la gente del cinema di quegli anni, è qui che si organizzavano i famosi tè danzanti delle cinque che fanno da sfondo al primo racconto di Billie Wilder.
La dimensione autobiografica in cui si muove l’autore emerge anche in altri passi de Il principe di Galles va in vacanza, consentendoci di ricostruire, cartina alla mano, i suoi percorsi preferiti:
Sarà stato tre settimane fa. Dopo tanto tempo finalmente una rilassante passeggiata pomeridiana per guardare le vetrine della Tauentzienstraße. All’improvviso, sulla Wittenbergplatz si sentono le grida miste a risa della folla ammassata. Al centro un giovane pallido fa dei gesti affannosi.
In parte le memorie di un ballerino a pagamento sono ambientate anche l’Hotel Adlon. Esso può essere facilmente localizzato sulla cartina della città del 1926, si trova sulla Parisier Platz, all’inizio di Unter den Linden, ai tempi era di fronte alle ambasciate francese e inglese, dov’è ancora oggi anche se il suo nome è diventato Hotel Adlon-Kempinski. È in questo albergo che il giovane Wilder accompagnava le signore dell’alta società a prendere il tè.
Come Billy Wilder anch’io sono partita giovanissima per Berlino. E come lui cercavo casa e lavoro ma soprattutto cercavo di entrare in confidenza con la lingua tedesca, e fu proprio così che conobbi un gruppo di architetti che stava lavorando a quella immensa e incredibile mostra di architettura che fu l’IBA-Berlin. Alcuni dei più famosi architetti del mondo per l’occasione erano stati invitati a partecipare alla ricostruzione di alcune aree di quella città ferita, il cui patrimonio architettonico è ancora oggi chiaramente leggibile nei documenti cartografici che ripercorrono le trasformazioni della città dal 1738 al 1989 rintracciabili nel Berliner Stadtplanarchiv.
La IBA fu secondo il «Time Magazine» «the most ambitious showcase of world architecture in this generation». Iniziata alla fine degli anni ’70 si concluse nel 1987, in occasione del 750° anno della fondazione della città di Berlino, e trasformò Berlino Ovest in uno dei centri dell’architettura mondiale degli anni ’80. L’organizzazione degli interventi fu divisa in due sezioni, una dedicata alla «ricostruzione critica», alle nuove realizzazioni edilizie, diretta da Josef Paul Kleihues; e l’altra dedicata al «rinnovamento urbano prudente», agli interventi su aree degradate, diretta da Hardt-Waltherr Hämer. Vi parteciparono i maggiori architetti dell’epoca, come Rem Koolhaas, Arata Isozaki, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Oswald Mathias Ungers, Rob Krier, Peter Eisenman, James Stirling e naturalmente Zaha Hadid.
L’ultima sede importante dell’IBA era situata in un palazzo a Checkpoint Charlie, ma per me il «quartier generale» dell’IBA si trovava nella villa sulla Nollendorfplatz. Lì infatti avevo trovato casa in una delle numerose colonie di giovani architetti presenti a quei tempi a Berlino. Non era molto distante dal Metropol, una discoteca frequentata da musicisti famosi, che ai tempi di Billy Wilder si chiamava ancora Theater am Nollendorfplatz, ed era il teatro di Erwin Piscator e il cinematografo dove alla fine degli anni ’20 vennero proiettati i primi film sonori.
Una delle ultime iniziative dell’IBA fu una mostra pensata per documentare la trasformazione urbanistica della città. Il curatore Walter Stepp, insieme a Carla Vallotto, aveva deciso di aprire la mostra con un’enorme e utopica carta delle due parti della città unite. In quelle giornate di tarda primavera del 1987 una squadra di collaboratori era intenta, a volte fino a notte fonda, a completare un enorme mandala, la grande città indivisa così come sarebbe stata se gli eventi politici non avessero portato alla sua lacerazione. L’idea della città globale era già nell’aria.
Poco più di due anni dopo quell’immagine della città indivisa che avevamo colorato per ore nelle notti di maggio era diventata realtà.
Quello che certo non avrei mai immaginato è che poco tempo dopo sarei stata impegnata per quasi un decennio a ricucire le lingue di quel paese così come alla fine degli anni ’80 insieme ai miei amici ne avevo rimarginato i confini con i pennarelli colorati. E meno che mai avrei potuto immaginare che a più di trent’anni di distanza mi sarei trovata a ripercorrere con Wilder le strade di un’altra Berlino ancora, diversa dalle due che avevo conosciuto, la meravigliosa Berlino degli anni ’20. La città al cui solo ricordo i berlinesi nel dopoguerra non riuscivano a trattenere le lacrime. Una città che palpita ancora nel ricordo e nell’immaginazione degli artisti e degli autori che vi hanno abitato e che rivive oggi nelle pagine di
questa raccolta di articoli di Billy Wilder, risultato del minuzioso lavoro di ricostruzione del curatore Klaus Siebenhaar pubblicato a Berlino nel 1996 e adesso disponibile anche in italiano.
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