L'eterna bellezza di Gianni Versace. Vent'anni senza il genio della moda
Scritto da: Tony di Corcia
Io me lo ricordo, il momento in cui mi trovai davanti a Gianni Versace per la prima volta.
Prima di quel momento, il suo nome era un logo sulle campagne pubblicitarie con Linda Evangelista fotografata da Herb Ritts, uno dei tanti che affollavano la mia mente di giovanissimo appassionato di moda. Era l’ospite di Serata d’onore a cui Pippo Baudo faceva domande sulla sua infanzia. Era un sinonimo di avanguardia e modernità, con quei tagli arditi e quei colori arroganti.
Quel pomeriggio del 1991, invece, Gianni Versace si stagliava davanti al mio sguardo stupefatto di sedicenne nella sua forma migliore e più rappresentativa. Dalla vetrina della boutique Petronio di Foggia, che nella mia città natale attirava i clienti più esigenti, Versace mi sorrideva e mi seduceva sotto forma di una camicia in seta stampata: su quel tessuto luminosissimo erano state sapientemente mescolate maschere del teatro antico, greche optical e scritte colorate. In un metro quadrato di vetrina c’era tutta l’essenza del suo stile, del suo estro, della sua personalità.
Avviai immediatamente trattative con i miei genitori per poterla acquistare: reclamai un compleanno appena trascorso, ricordai una cerimonia imminente, farfugliai motivi per cui quel capo mi fosse indispensabile. Furono trattative lunghissime e penose, oltre che vane: il finanziamento non mi fu concesso, perché quella camicia costava quanto uno stipendio di mio padre. Ne ricavai un rimpianto che avrei vendicato, ma mai completamente, qualche anno più tardi cominciando a collezionare quelle camicie, e indossarle aveva il sapore di un risarcimento.
E mi ricordo anche quel 15 luglio del 1997.
Lavoravo come giornalista per un settimanale. Ero stato inviato sul Gargano per realizzare un servizio sulle vacanze, sui turisti, sui consumi in tempo di crisi (siamo sempre stati in crisi, noi italiani). Non avevo internet, iPhone, Whatsapp; per chiamare casa dovevo usare ancora il telefono fisso. Quando mi comunicarono la notizia, stentai a crederci: da quando in qua gli stilisti vengono assassinati? Avrete capito male.
La conferma giunse dal telegiornale, e l’incredulità divenne amarezza. Sentii il bisogno di tornare a casa, scaricai il reportage sul collega che mi accompagnava e presi il primo treno: avevo bisogno di capire, e non era vagando tra spiagge e stabilimenti balneari che avrei potuto farlo.
Sono trascorsi vent’anni da quel giorno, e ancora non ho capito perché Gianni Versace ci sia stato strappato in quel modo.
Anche se avevo solo 22 anni, quel giorno è morta con lui una parte consistente della mia giovinezza.
Versace possedeva il dono dell’improbabile. Riusciva a vestirci con accostamenti cromatici spericolati, ci faceva indossare icone russe e cavalieri medievali, borchie da cowboy e meduse da affresco romano, gonne asimmetriche e magliette trasparenti e noi, anziché provare imbarazzo, ci sentivamo più sicuri e sfrontati, affrontavamo il mondo con quegli abiti che erano la divisa ideale per i giovani degli anni Novanta: gli anni dell’immagine che prende il sopravvento sulla sostanza, gli anni in cui le top model erano le icone da ammirare, gli anni in cui il talento era importante ma se avevi la faccia giusta potevi anche esserne totalmente privo. Gli anni che hanno completato il processo avviato dagli Ottanta, e che ci hanno portato alla vacuità dei giorni nostri. Forse lo sapevamo già allora, ma quando si è giovani si accetta tutto, compreso il declino della società.
Ho seguito il lavoro di Versace come giornalista. Le sue sfilate non sono mai mancate nella trasmissione di moda che ho curato e condotto per anni: ogni volta rivivevo l’incanto provato davanti a quella camicia stampata. Il colore, la sartorialità sapiente, le stampe, la pelle, l’oro. La maglia metallica, gli accostamenti arditi, le ispirazioni come il punk o il sadomaso. E quella capacità di trasformare le sue passioni in tendenze irresistibili: il neoclassico, il barocco, il rock, il balletto. Nessuno sapeva far dialogare le arti tra loro quanto lui, nessuno riusciva a convogliare stimoli tanto diversi per farne un prodotto unico e riconoscibile. Anche nella più affollata delle vetrine, riuscivo a riconoscere i capi di Versace da un bottone, da una borchia, da una tonalità, da un’impuntura, e tutti gli altri accanto, al confronto, sembravano stracci.
Nel 2012 ho avuto la possibilità di scrivere la sua biografia (avevo già firmato un libro su di lui nel 2010). Ripercorrendo le tappe della sua carriera, scoprendo episodi della sua infanzia e della sua giovinezza, mi sono spiegato il segreto del suo successo e della sua bravura: Versace era un ragazzo innamorato della bellezza, e questo fuoco ha riscaldato il suo lavoro dal primo all’ultimo giorno. Era inevitabile che ne restassimo stregati, tutti, compresi coloro che lo denigravano. La sua esistenza ha sempre avuto i contorni della fiaba, ed è così che ho voluto raccontarla: rispettando quell’alone di magia e di luce che ha sempre avvolto ogni momento della sua vita e della sua carriera.
Gianni era il figlio di una bravissima sarta di Reggio Calabria. Quello che è diventato il creatore dei moda più ammirato a livello internazionale, che ha vestito principesse e rockstar, che ha dato alla femminilità nuove modalità di espressione, e ha reso la moda un fenomeno sexy, eccitante, appassionante.
Paradossalmente, per me è molto difficile parlare di Gianni Versace: perché la sua esperienza umana è stata ricchissima e ha irradiato la sua forza in numerosi campi e in numerosi modi, ma anche perché la sua moda ha accompagnato anni importanti della mia vita.
A distanza di vent’anni dalla sua morte, tutti continuano a copiarlo, a sfruttarne le intuizioni, a ricercarle nei tessuti che magari aveva realizzato nel 1984 o nel 1991. I più giovani, quelli che non hanno vissuto gli anni del suo trionfo, hanno affollato le boutique H&M di tutto il mondo pur di avere una camicia o una maglietta stampata con le palme di Miami. Gli stilisti emergenti, che dovrebbero essere l’avanguardia, si procurano i suoi vestiti o i cataloghi con le fotografie di Richard Avedon per capire il segreto di quelle silhouette così definite e intramontabili.
A me piace pensare che Gianni stia continuando a creare bellezza da qualche altra parte e in qualche altro modo.
Un’energia così straordinaria non può essere stata spenta da un accadimento così comune come la morte.
Quell’episodio così tragico e inspiegabile ha fermato il corpo di Versace, ma il suo universo estetico resiste al passare degli anni e ci seduce, ci incanta, ci conquista ancora oggi: la bellezza non muore mai, e lo stesso destino è toccato al genio di Gianni Versace.
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Tony di Corcia Prefazione di Giorgio Armani |