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Marzo 2020
L'epidemia come sfida morale: intervista a Rafael Argullol

L'epidemia come sfida morale: intervista a Rafael Argullol

Scritto da: Redazione

Nel suo libro La ragione del male, Rafael Argullol racconta di una città colpita da una malattia sconosciuta e misteriosa. In questi giorni di emergenza sanitaria, è impossibile non pensare a quanto scritto in quel romanzo del 1993, con cui l'autore vinse il Premio Nadal. Profetico sotto diversi punti di vista, in quell'epidemia immaginaria c'è simbolismo, compassione, spiritualità… Riportiamo allora un'interessante intervista all'autore del quotidiano  «La Vanguardia» a cura di Albert Lladó pubblicata il 21 marzo 2020.
La traduzione dallo spagnolo è di Davide Platzer Ferrero.

  

In principio furono vaghe voci, poi incertezza e sconcerto, alla fine scandalo e timore

 

Queste sono le parole che aprono La ragione del male, il romanzo con cui il pensatore, scrittore e poeta Rafael Argullol – che è anche professore di Estetica presso l'Università Pompeu Fabra di Barcellona – ha vinto il Premio Nadal nel 1993. Ripubblicato con successo nel 2015 da Acantilado, è uno dei libri più citati in Italia (Lindau 2018) da quando il Paese è stato travolto dal coronavirus.

Parliamo con l'autore nel mezzo di questa crisi, quando il contagio in Spagna ha raggiunto un livello tale da costringere il Governo a dichiarare lo stato di allarme. Procede tutto con una grande velocità, tutto è molto urgente, eppure le minacce alla sicurezza e alla libertà – quelle che possono tirar fuori il meglio e il peggio dall'essere umano – hanno sempre fatto parte della storia delle civiltà. E noi, che ci piaccia o meno, non facciamo eccezione.

  • Le dinamiche del contagio nel romanzo sono simili a quelle che stiamo vivendo. Ci troviamo in una situazione radicalmente nuova, ma anche di fronte a una cronologia conosciuta, quella delle grandi pandemie.

Nel Decameron c'è la peste nera (che colpì Firenze nel 1348). E ricordiamo che, molto prima, Lucrezio dedica i versi più belli del suo De rerum natura alla descrizione della peste di Atene. Le epidemie sono una realtà con cui l'essere umano si confronta da millenni. E hanno anche qualcosa di simbolico. Tanto da un punto di vista spirituale che metafisico.

  • E portano le società al proprio limite.

Sì. Fisicamente, i lazzaretti – a Venezia come a Barcelona – erano sempre collocati ai confini della città. Le epidemie portano le città al limite e le costringono a definirsi rispetto ai comportamenti etici.

  • Perché è importante la memoria – inclusa quella letteraria – in questi casi? Ci serve per relativizzare uno stato di eccezionalità?

Dopo tutto, nella letteratura han funzionato soltanto due grandi modelli: il viaggio e l'epidemia. Nel secondo – che comprende anche la guerra – rinchiudiamo tutta l'umanità in uno spazio e, partendo di qui, analizziamo la natura umana.

  • L'esperienza del viaggio è stata fondativa per la sua opera. Crede che quello che sta succedendo con il coronavirus stia mettendo in crisi la narrazione della globalizzazione come forma di mobilità ed emancipazione?

Quello che sta succedendo ci può portare a un certo perfezionamento morale, a una trasformazione spirituale. Però può anche far sorgere in noi una certa tendenza all'anestesia e all'oblio.

  • La città del romanzo è una città benestante. Lo dicono tutte le statistiche. Questa sociologia del sondaggio, che tende spesso all'autocompiacimento, ci ha spinto a ignorare il fatto che la vita è sempre sinonimo di vulnerabilità?

Sì. E adesso sta succedendo qualcosa di molto grave. Alcuni giovani rispondono che tanto a morire sono le persone già anziane. Per questo è necessario mostrare ora che la mancanza di responsabilità individuale può causare la morte degli altri. E questo non è facile in una società come quella spagnola, così poco abituata al sacrificio e alla capacità redentrice di quest'ultimo. Dobbiamo considerare che la maggior parte delle generazioni non ha partecipato a nessuna guerra. E azioni grottesche hanno la meglio sul sacrificio. Come quando alcune persone se ne sono andate al mare, abbandonando un focolaio di contagio come Madrid. O, addirittura, come quando qualcuno ha pensato di festeggiare per celebrare l'arrivo del coronavirus.

  • La prima misura adottata dalle autorità ne La ragione del male è quella di dare un nome ai contagiati, chiamandoli «esanimi». Ciò che non viene nominato diventa innominabile. Qualcosa del genere, all'inizio, è successo anche con il coronavirus.

Dare un nome è assegnare una parola, ma è anche assegnare realtà. Del coronavirus dicevano che era una cosa della Cina, una specie di influenza. Ci abbiamo messo troppo tempo a chiamare l'epidemia con il suo nome.

  • «Isolamento» è un'altra parola che ha rapidamente invaso la nostra vita.

Di colpo si diffondono parole scomode o proibite. Adesso parliamo con naturalezza di «allarme», «emergenza», «isolamento», «quarantena», «blocco». Questo vocabolario concentra nella città ciò che era già presente nel mondo. Mentre arrivava il coronavirus, sapevamo che tra Grecia e Turchia si stava producendo ogni tipo di orrore.

  • Gli esanimi del romanzo a un certo punto non vengono più considerati come malati ma come i colpevoli di qualche crimine sconosciuto. In questa crisi banalizziamo i casi di «persone con altre patologie». Esiste il pericolo di cadere in una sorta di darwinismo sociale?

Sicuramente qualche scienziato nichilista, amorale e indifferente può essere tentato di interpretare la situazione in questi termini. Si tratta di un punto di vista pericoloso.

  • Perché, nella narrativa, le distopie hanno più successo delle utopie?

Anche i narcos ci vengono presentati come eroi epici. Pablo Escobar è praticamente un Achille. Lo stesso succede con le distopie, che ci vengono raccontate con tanta naturalezza che quando arriva un'epidemia come quella del coronavirus le persone non sanno come reagire, se in preda al delirio o con indifferenza. Il racconto utopico viene sentito come caratteristico di un passato illuminato, romantico, non della nostra epoca. Oggi nessuno vuole essere né romantico né illuminato. Le frasi di adesso sono «Non ho tempo» e «Le cose stanno così».

  • I due protagonisti de La ragione del maleil fotografo Víctor e lo psichiatra David, rappresentano due modi di vedere il mondo. Uno più impulsivo, l'altro più razionale. Ciononostante, entrambi sono consapevoli dell'importanza di opporsi a qualsiasi interpretazione messianica.

Questo è esattamente il problema affrontato nel romanzo. L'epidemia può essere un viaggio iniziatico per migliorare la condizione umana e rafforzare il senso della libertà individuale e collettiva. O può, al contrario, farci regredire e favorire il ritorno dei fantasmi del passato. E questo è quello che stiamo vedendo con il coronavirus. Il rischio è di tornare ai vecchi esorcismi e alla demonizzazione degli altri e dell'altro.

  • Finché non appare Rubén, il Maestro, che promette di salvare la città attraverso l'arte della magia. La richiesta che si sta facendo di un vaccino immediato, quando ancora non si conosce bene la malattia, non corrisponde a una visione religiosa della scienza?

In una società come la nostra, ormai incapace di interrogarsi sul trascendente, ci ricordiamo della scienza soltanto quando si presentano situazioni traumatiche. Allora ci aspettiamo dalla scienza quello che prima ci aspettavamo dalla religione.

  • Il narratore ci dice che, di colpo, si combinano il simulacro, il mistero e la menzogna.

Quando è stato pubblicato il romanzo, nel 1993, quella combinazione non era così chiara come adesso, con personaggi come Boris Johnson, Bolsonaro o Trump, che incarnano quei tre elementi. L'irrazionalismo si è trasformato, ma ci si continua a rivolgere alla paura. La formula matematica dell'uomo è paura più speranza.

  • In questi giorni abbiamo visto che la fiducia non è né fede né ingenuità. Abbiamo fiducia nel personale medico, non perché conosce la soluzione, ma perché sa quali sono i criteri per raggiungerla.

Ed è importante che in queste situazioni torniamo ad avere fiducia in qualcosa di cui ci siamo dimenticati: la compassione. Adesso il muro di sostegno non è l'organizzazione politica né quella economica, ma è la capacità di compassione della popolazione. I medici svolgono un ruolo fondamentale perché incarnano quella compassione.

  • Si è sempre parlato della dicotomia tra sicurezza e libertà. Ma sono veramente due concetti opposti? Non sarebbe questo il momento giusto per ripensare la loro complessa relazione?

Credo che ci sia una concezione del tutto errata della democrazia, sin da quando è stata fondata. Uno dei grandi padri della democrazia, oltre a Pericle, è Eschilo. E per lui la cosa più importante era lottare contro la hybris, l'assenza di misura. La democrazia è mediazione tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani, tra malati e sani… Ci siamo scordati che la libertà collettiva può esistere solo se c'è mediazione.

  • Dal discorso sulla sicurezza si passa facilmente a difendere la legittimità del controllo. Siamo ora forse più disposti a cedere i nostri diritti?

Da questo punto di vista molto è cambiato dalla pubblicazione de La ragione del male. Quando, nel 1986, Olof Palme venne assassinato all'uscita di un cinema, a Stoccolma discussero molto se installare una telecamera di sicurezza in quella strada. Alla fine decisero di non installarla, perché questo avrebbe comportato una forma di controllo antidemocratico. Quante telecamere di sicurezza funzionano adesso nel mondo? E uno degli effetti nefasti della situazione attuale, soprattutto con la questione del terrorismo, è l'aumento del controllo sui cittadini.

  • Ne La ragione del male, i lettori dei quotidiani leggono solo le notizie. I giornali hanno perso ogni prestigio. Come si stanno comportando i mezzi di comunicazione durante questa epidemia?

All'inizio si sono comportati acriticamente, come se si trovassero di fronte a un mercato delle opportunità. Le notizie venivano date in modo terribile. Ho l'impressione che poi ci sia stata una reazione interiore che ha portato i media a seguire in modo più responsabile la situazione.

  • Il romanzo è un'indagine sul male ma anche sulla malattia in senso metaforico. Una volta ha affermato che le malattie possono essere una forma di apprendimento. Nel suo libro Davalú o el dolor ha scritto su un altro tabù della nostra società, la sofferenza fisica.

È logico che dopo il dolore si cerchi il sollievo. Per questo Davalú o el dolor l'ho scritto il giorno prima di essere operato alla schiena, registrando le mie parole con un registratore. Sapevo che dopo non lo avrei mai fatto. Nelle situazioni apocalittiche si può crescere moralmente, o si può vivere nell'immediatezza, o si può dimenticare. Sono le tre grandi spinte in lotta tra loro. Non ci scordiamo che l'epoca più creativa della Storia si apre dopo la peste nera, ed è il Quattrocento. La creatività di Firenze e della Toscana nel XV secolo non la ritroviamo da nessun'altra parte. L'umanità è abbastanza imprevedibile.

  • Questo virus ci ha obbligato a fare attenzione a come entriamo fisicamente in rapporto con gli altri. Ci viene richiesto di non baciarci e di non stringerci la mano. Che influenza avrà tutto questo sul nostro comportamento sociale?

La democratizzazione ipocrita del contatto fisico è stata distrutta in poco tempo. Anche questo è un aspetto interessante. Forse può aiutarci a esprimere i nostri sentimenti con maggiore profondità e maggiore autenticità. Anche in questo caso vedremo se diventeremo più freddi o il contrario. Forse supereremo i formalismi e ci renderemo contro dell'importanza dell'abbraccio.

  • Ne La ragione del male arriva il giorno in cui più nessuno visita la città. Nell'ultimo mese si sono ridotti i consumi e il turismo, in Cina come in Europa. Qualcuno lo ha visto come una vendetta della natura. Non è un po' ingenuo interpretare la situazione in termini di «giustizia poetica»?

È molto pericoloso. Sicuramente una parte del nostro comportamento ha avuto conseguenze nefaste sulla natura. Ma io non ricorrerei mai a questo tono biblico, al discorso del peccato e del castigo.

  • Sin da molto giovane ha sentito la passione per la medicina, che ha studiato all'università. Cosa è rimasto di quella passione nella sua scrittura e nel suo pensiero?

Della medicina mi attraeva la sua capacità di indagare nel corpo umano, nella pelle, nella carne, negli organi. È un movimento parallelo all'indagine del cosmo. Allo stesso tempo mi interessava il suo elemento compassionevole, che è al di là degli interessi dogmatici e ideologici. Dovremmo tornare ad appendere il giuramento di Ippocrate negli studi di ogni medico. Affinché il paziente non si senta reificato, trattato come un cliente, deve sperimentare quella idea di mediazione di cui parlava Eschilo.


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