L'alba maledetta di Fred Buscaglione
Scritto da: Redazione
In occasione dell'anniversario della scomparsa di Fred Buscaglione, avvenuta il 3 febbraio 1960, pubblichiamo un estratto dal libro di Maurizio Ternavasio, Il grande Fred. Fred Buscaglione, una vita in musica, dal primo capitolo All'improvviso, l'addio.
Le strade della capitale, in quella maledetta alba di metà inverno, erano pressoché deserte. D’altronde alle 6,20 di un mercoledì qualsiasi i più sono ancora a letto o, al massimo, si stanno pigramente preparando per la giornata che va a cominciare.
A quell’ora invece Fred, il grande Fred, stava apprestandosi ad andare a dormire dopo una delle tante notti che non arrivavano mai alla fine, divenute ancora più frequenti da quando si era separato dalla moglie Fatima, e aveva lasciato definitivamente la sua Torino per stabilirsi in una camera doppia al secondo piano dell’Hotel Rivoli, ai Parioli, dove viveva solo come un cane.
«Che notte, che notte quella notte! / Se ci penso mi sento le ossa rotte», si potrebbe dire, parafrasando una delle sue più celebri canzoni, di quell’ultima, maledetta e interminabile serata. Dopo aver cenato con un gruppo di amici alla Taverna degli Artisti di via Margutta, il trentottenne cantante torinese s’intrattenne prima con un agente teatrale e poi con Mina – l’astro nascente di Sanremo, che insieme agli Hippy Boys aveva inciso nel ’58 il primo disco con il nome di Baby Gate. Quindi fece un salto alla Rupe Tarpea, famoso nightclub dei paraggi, per un rendez-vous con i componenti dell’orchestra diretta dal pianista Paolo Zavallone; con loro si recò poco dopo nella trattoria notturna del Terminal dell’Aeritalia, in via Giolitti, dove venne avvicinato da Hanna Rasmussen, una giovane molto bella che faceva parte della comitiva, la quale lo aveva non poco corteggiato.
Stavano quasi per scoccare le 6,00, quando Buscaglione uscì in compagnia di due orchestrali ai quali aveva offerto un passaggio verso il loro albergo, nelle vicinanze di piazza Barberini. Intanto aveva deciso che, nonostante fosse già giorno da un pezzo, si sarebbe riposato almeno per qualche ora. In tarda mattinata, infatti, avrebbe dovuto recarsi prima a Castelfusano, per girare le scene finali di A qualcuno piace Fred, il film che sarebbe uscito nelle sale dopo la sua morte con il ben più rassicurante titolo di Noi duri (1959, di Camillo Mastrocinque).
Ma, si sa, qualche volta all’alba giungono a termine le storie d’amore e spesso svaniscono i miti. Non per nulla Buscaglione si era ispirato proprio alle primissime ore della mattina per una strofa di Cielo dei bars, una delle sue ultime, struggenti melodie: «Ci vediamo al fondo di un bicchiere / fino a quando l’alba in cielo tornerà / e nell’alba disperata / sarà triste rincasare / per attendere la notte / e poterti ritrovare / al fondo di un bicchiere / nel cielo dei bars».
In quell’alba fatale Fred uscì di scena per sempre, senza l’accompagnamento dell’orchestra e i consueti applausi del pubblico. Al volante della potente e un po’ pacchiana Ford Thunderbird rosa-shocking targata TO-286788, il cantante stava percorrendo a una velocità di poco meno di 100 chilometri orari via Paisiello in direzione dei Parioli, quasi come fosse inseguito da un manipolo di quei gangster che avevano popolato alcune tra le sue canzoni di maggior successo.
Nei pressi dell’incrocio dove via Rossini diventa viale Aldrovandi, il rombo del motore del suo gioiellino americano gli impedì forse di udire il sordo rumore del camion Lancia Esatau carico di blocchi di tufo che sopraggiungeva dalla sua destra diretto verso Villa Borghese. Resosi conto soltanto all’ultimo della presenza dell’automezzo, Buscaglione tentò di accelerare nel disperato tentativo di precederlo. Ma la spericolata manovra non gli riuscì. (…)
Buscaglione era accasciato sul volante con la testa irrimediabilmente ferita. (…)
Ferdinando Fred Buscaglione, nato a Torino il 23 novembre 1921 e residente in via Bava 26 bis, in mille frangenti si era accasciato a terra colpito dalle micidiali pallottole sparate dalle sue «bambole», e in altrettante occasioni era stato fulminato dalle scariche di fucile della sua Teresa o bersagliato da decine di pugni alla Rocky Marciano di splendide ragazze «modello 103». E sempre si era rialzato, più vivo e divertito che mai, con stampata sulla bocca l’abituale e fragorosa risata che metteva in pericolo il mozzicone di sigaretta e l’equilibrio del bicchiere rigorosamente stracolmo di whisky. In quella circostanza, invece, gli era andato tutto storto.
Il 23 novembre del ’60 Fred Buscaglione avrebbe compiuto 39 anni. Così lo ricordava, qualche settimana dopo la morte, sua madre, Ernesta Poggio, rimasta vedova soltanto un anno e mezzo prima:
Era così irrequieto e imprevedibile nelle decisioni, nei gesti e nelle stesse parole da apparirmi sempre il fanciullo che, a dieci anni, scappava per andare a divertirsi con i suoi amici, spesso in zone troppo lontane da casa. Non sono mai stata tranquilla con Fred, né quando era piccolo né quando, diventato adulto, cominciò a girare per il mondo. Era pieno di vita, insofferente di ogni disciplina; in compenso aveva un cuore grande e una straordinaria sensibilità d’animo che soltanto sua madre e gli intimi riuscivano a capire. (…)
L’ultima volta che lo vidi fu il giorno di Santo Stefano, e mi sembrò meno vivace e sicuro di sé. Gli chiesi se si sentisse male o se qualche cosa non gli andasse bene. Mi rispose che la salute era ottima, ma che si sentiva stanco per i troppi impegni che non gli lasciavano un solo momento libero. Intuii che la sua non era soltanto stanchezza: c’era ben altro nel suo cuore, che non osava rivelarmi. Capii che la sua difficile situazione familiare lo angustiava molto di più di quanto volesse dare a intendere.
Nel rievocare Fred, scomparso così tragicamente, Ernestina aveva gli occhi spenti e asciutti. Aveva pianto a lungo, in silenzio, subito dopo la notizia della sciagura, ma poi aveva dovuto farsi forza, arrendersi alla fatalità: il suo primo figlio – l’«uomo delle tenebre» che aveva trascorso gran parte della sua vita tra donne stupende, ora appena sfiorate, ora conosciute, ora possedute, ora soltanto sognate – se n’era andato per sempre, e ormai nulla avrebbe potuto farlo tornare.
Come recitava il finale di una delle sue recenti canzoni slow, Una sigaretta:
«Muore un dolce sogno / nato troppo in fretta / Io me ne vado amore / e spengo questa sigaretta».
Proprio una strana bestia, il destino. Fred Buscaglione, uno che viveva di notte e che l’alba non l’aveva mai vista se non per sbaglio, si era fatto irretire inesorabilmente proprio da un mattino maledetto, quando i gangster delle sue canzoni erano ancora a letto e neanche si sognavano di inseguire a folle velocità per le strade deserte di Roma una strana macchina americana.
---
|
Maurizio Ternavasio Il grande Fred. Fred Buscaglione, una vita in musica |