Il nome della devastazione. Wisława Szymborska racconta Tadeusz Borowski
Scritto da: Redazione
Il 12 novembre del 1922 nasceva Tadeusz Borowski, una delle grandi voci della letteratura polacca del Novecento. Celebriamo questo compleanno simbolico con un regalo di Roberto M. Polce, il suo traduttore italiano: ci affidiamo alle parole del Premio Nobel Wisława Szymborska, grazie a questa traduzione inedita, con una testimonianza d'eccezione.
Qualche mese dopo la pubblicazione del libro di Borowski Pożegnanie z Marią [Addio a Maria; edito da Lindau con il titolo di Paesaggio dopo la battaglia], nel 1948 apparve sulla rivista „Dziennik Literacki” una recensione a questa raccolta di racconti firmata da Wisława Szymborska, la grande poetessa polacca insignita nel 1996 del Premio Nobel per la letteratura. La Szymborska, pur essendo essa stessa allora sotto l’influsso dell’imperante clima culturale dominato dai dettami del realismo socialista, in poche frasi coglie immediatamente e acutamente, fin dal titolo, lo straordinario valore e le caratteristiche salienti dell’opera di Borowski che la rendono unica e diversa dalla produzione letteraria e dalle testimonianze sui lager nazisti apparse copiosamente (in Polonia, ma anche nel resto del mondo) dopo la guerra. [R.M.P.]
Wisława Szymborska
Una diversa visione del lager
TADEUSZ BOROWSKI appartiene a quella generazione che ha fatto il suo ingresso nella letteratura soltanto durante l’ultima guerra mondiale. È autore di due volumetti di poesie pubblicati clandestinamente durante l’occupazione nazista. Arrestato all’inizio del 1943, viene deportato ad Auschwitz e poi a Dachau. E proprio qui lo coglie la fine della guerra. Queste esperienze influirono in maniera decisiva sul suo atteggiamento verso il proprio lavoro creativo, fino ad allora ancora molto giovanile. Sentendo l’inadeguatezza dei mezzi poetici per esprimere pienamente i tempi che stava vivendo, Borowski si butta sulla prosa, trattando da quel momento le poesie come marginali. Il suo volume di racconti di recente pubblicazione intitolato Pożegnanie z Marią [Addio a Maria] lo ha incluso nella cerchia dei candidati presi maggiormente in considerazione per il premio “Odrodzenie” [“Rinascita”] di quest’anno. Il grande talento dell’autore e l’assoluta particolarità del modo di presentare la vita sotto l’occupazione nazista e nel lager giustificano pienamente questo riconoscimento. Contrapponendosi all’atteggiamento di Zofia Kossak-Szczucka delineato nelle sue memorie del lager, Borowski dichiara (“Pokolenie” [“Generazione”] n. 7, gennaio 1947): “Non si può scrivere dei grandi movimenti storici, non si può scrivere delle grandi disfunzioni etiche, non si può scrivere di Auschwitz in altro modo che in termini puramente umani, servendosi di un lessico verificabile… Credo che l’unico metodo sia una visione materialistica del mondo, che il senso di Auschwitz possa essere perfettamente chiarito al suo interno, poiché il problema etico dell’uomo e delle condizioni sociali si colloca esattamente lì, e infatti è proprio questo il problema centrale di Auschwitz, il rapporto tra un prigioniero e un altro prigioniero!”
Queste parole potrebbero costituire il miglior commento a Pożegnanie z Marią. E il libro un commento lo richiede. Non perché la posizione dell’autore vi si delinei in modo poco chiaro, ma perché proprio essa è così particolare, così diversa, così nuova rispetto ai modi tradizionali di scrivere dell’occupazione e del lager.
Pur senza addentrarci in un giudizio più circostanziato su questo modo di scrivere, dobbiamo ammettere che Borowski ci ha dato delle opere di grande valore. Sono in particolare quelle che, occupandosi soltanto di registrare i fatti, hanno un carattere puramente informativo. Borowski si serve inoltre unicamente del fatto non rimodellato per le esigenze di una trama letteraria, ma si interessa soprattutto al ‘come’ della vita sotto l’occupazione nazista. Un tale metodo esigeva una diversa selezione dei fatti – ecco perché in questi racconti non troveremo avvenimenti dei singoli che si staccano in modo spettacolare dalla quotidianità. Qui si tratta di restituire un quadro tipo, una gamma generale di fenomeni e sensazioni.
Così dunque il racconto che dà il titolo al libro mostra le forme contorte dell’esistenza sotto l’occupazione basate su modi di fare commerci malsani e rischiosi. I tre successivi (Dzień na Harmenzach [“Una giornata ad Harmenze”], Proszę państwa do gazu [“Prego, signori, al gas”] e Śmierć powstańca [“La morte dell’insorto”]) mostrano la brutale lotta per la vita e la sopravvivenza nel campo di concentramento, una lotta ancora più tragica in quanto tira fuori dalla natura umana i suoi lati più mostruosi. L’ultimo ([Bitwa pod Grunwaldem “La battaglia di Grunwald”]) mostra l’uomo del lager dopo la liberazione da parte degli Alleati e i suoi sforzi molto spesso vani per uscire dal cerchio fisico e mentale del filo spinato.
L’autore, spinto dalla volontà di dire il vero, rinuncia a molti metodi di scrittura utili per legare insieme le azioni. I fatti in Borowski parlano da soli e acquistano per ciò stesso una forza espressiva particolare. Le persone qui vengono mostrate in azione, perché essa sola riesce a definire un uomo. Parlano in una lingua vera, con una propria sintassi e un lessico “da lager”. Non ci sono personaggi che vengono alla ribalta, il dramma personale dell’individuo è completamente immerso nel dramma di tutto l’ambiente.
La figura del narratore comune a tutti i racconti – con cui si può giustamente identificare l’autore del libro, avendo peraltro anche il suo stesso nome – possiede anch’essa caratteristiche collettive e non gode di alcun diritto letterario separato. Altri sono i motivi che attirano sulla persona del narratore un’attenzione speciale… Nell’intransigente passione di “sbugiardare” la realtà che descrive – l’autore “sbugiarda” anche se stesso; la sua sincerità estrema, finanche imbarazzante, non risparmia nulla, non tace nulla.
Così sono nate le pagine di questo libro che si imprimono per sempre nella memoria, così è nato questo grande quadro delle devastazioni prodotte nella psiche umana dal meccanismo della vita sotto l’occupazione, e soprattutto del lager. L’autore si astiene dall’avanzare una propria diagnosi. Spetta quindi al lettore dare i nomi giusti a queste devastazioni: insensibilità alla sorte altrui, atrofia dei più elementari impulsi del cuore, avidità ed egoismo…
[Tratto da: W. Szymborska, Odmienne spojrzenie na obóz, pubblicato in "Dziennik Literacki”, nr 37, 1948; trad. it. di Roberto M. Polce.]