Georges Simenon e l'arte del romanzo. Un'intervista di Francis Lacassin
Scritto da: Redazione
L'intervista che segue è tratta dal libro «Conversazioni con Simenon». A dialogare con Georges Simenon è Francis Lacassin, giornalista ed editor francese che nel 1969 incontrò l'autore per una lunga intervista sulla sua produzione letteraria, e non solo. All'epoca Simenon aveva smesso di scrivere romanzi.
Francis Lacassin: Perché scriveva romanzi? E perché non ne scrive più?
Georges Simenon: Ho sempre avuto voglia di scrivere romanzi, come d’altronde tanta altra gente. C’è, si può dire, quasi un terzo dei giovani che si dicono che un giorno scriveranno per lo meno un romanzo. Ma per me era quasi una ricerca di me stesso. Ovvero, ciò che chiamo la ricerca dell’uomo è la ricerca di me stesso, dato che sono un uomo come gli altri. È proprio scrivendo romanzi che avevo l’impressione di avvicinarmi all’uomo. Perché, per creare il personaggio di un romanzo, bisogna entrare completamente nei suoi panni. Parlo del romanzo del subconscio. Perché classifico i romanzi in due categorie: ci sono i romanzi scritti con intelligenza, sensibilità, poesia ecc.; e ci sono i romanzi scritti con il subconscio, letteralmente.
Ci si mette nei panni di un personaggio, e non si sa assolutamente dove quel personaggio ti porterà, lo segui giorno per giorno, ed è solo all’ultimo capitolo che sai qual è l’esito della crisi. Ebbene, creando un certo numero di personaggi e mettendoli fin dal primo capitolo in una situazione che crea automaticamente una crisi, i personaggi devono arrivare fino al limite di loro stessi.
D’altronde, domandavano a Balzac: “Che cos’è il personaggio di un romanzo?”. E Balzac rispondeva: “È chiunque là fuori, ma che arriva fino al limite di se stesso”.
Tutti quanti noi non andiamo fino al limite di noi stessi, o perché abbiamo paura di finire in prigione, o perché temiamo di urtare i nostri simili, o per ipersensibilità, o per buona educazione, come si dice... Insomma, per un mucchio di ragioni, ci sono poche persone che arrivano fino al limite di se stesse. E almeno, fortunatamente, oggi non c’è più quell’educazione restrittiva che si subiva un tempo. Allora, scrivere un romanzo è mettersi, le dico, nei panni di un personaggio, è creare un gruppo sociale qualsiasi, cinque, sei, sette persone, poco importa: dunque ci sarà un personaggio centrale, e bisogna solo entrare il più possibile in questo personaggio centrale.
Lacassin: È quasi, anche se il termine è pretenzioso, un’operazione psicanalitica quella che lei attua?
Simenon: All’incirca, non è così? Per me era cercare di sapere se quel tipo d’uomo avrebbe reagito in quello o in quell’altro modo. E, mi creda, non c’era bisogno di fare sforzi! Alla vigilia dell’ultimo capitolo, non sapevo come si sarebbe sciolto l’intreccio del romanzo, non sapevo assolutamente ciò che sarebbe necessariamente accaduto al mio personaggio. Questi seguiva una sua logica che non era affatto la mia logica. Io vivevo la sua crisi.
Lacassin: Ho osservato, leggendo i suoi reportage, che le persone che incontra nella realtà diventano ai suoi occhi personaggi da romanzo. In compenso, i personaggi dei suoi romanzi sembrano usciti dalla realtà. Questo approccio dell’uomo dipende, in lei, da un’attitudine cosciente o incosciente?
Simenon: Incosciente. Ma posso spiegarlo facilmente.
Ciascun uomo è un personaggio da romanzo, perché la vita di ogni uomo è un romanzo... E non è necessariamente un romanzo per questa o quella serie, horror o gialli, o quale che sia. Non so più quale grande critico ha scritto: ciascuno porta un romanzo dentro di sé. Sì, solo che non ne deve portare per forza altri. C’è solo il romanziere che ne porta altri. Ma in realtà ogni uomo è in grado di descrivere sia la propria gioventù, sia la propria nascita, sia l’incontro con la propria moglie e il primo mese di convivenza, e di farne un vero e proprio romanzo. Ma poi, quando non si tratterà più di se stesso, ma di altri personaggi, incontrerà grandi difficoltà. Creare personaggi e portarli avanti di peso richiede di mettersi nei panni degli altri, ed è talmente estenuante! Ed è per questo che a sessant’anni mi sono fermato, perché non potevo più portare le persone di peso così. Ecco tutto.
Lacassin: Ha preferenze per qualche romanzo?
Simenon: No. Parlando francamente, non ho preferenze. Certi hanno avuto più successo con questo o quel tipo di pubblico, ma, se lei chiedesse a Nielsen o a Gallimard, constaterebbe che tutti i miei romanzi hanno avuto, migliaio di copie più, migliaio di copie meno, all’incirca lo stesso corso.
Quello che cerco è che le persone leggano, mi leggano. Perché, quando mi leggono, significa che non mi sono sbagliato troppo sull’uomo. Capisce? Se i miei personaggi fossero falsi, non mi leggerebbero in uzbeco, in caucasico, in lituano, in tutti i paesi dell’America del Sud ecc. Quindi, tutto sommato, questo mi rassicura. Anche a me fa molto piacere essere rassicurato, perché non ho troppa fiducia in me, anzi. Ogni volta che finivo un romanzo, ero terribilmente in ansia all’idea di averlo fallito, e poi, revisionandolo – lasciavo passare da otto a dieci giorni prima di revisionarlo – mi dicevo: beh, non sembra tanto male, può andare. Mi rassicurava. E poi venivano le critiche. Ma non mi basavo sulle critiche di un solo paese: aspettavo le critiche di almeno una ventina di paesi per rassicurarmi.
Lacassin: Facendo il bilancio della sua opera, trova in essa non dico dei messaggi, che sarebbe pretenzioso, ma delle preoccupazioni?
Simenon: Ebbene, non ho mai cercato di esprimere un’idea, glielo dico molto francamente. Ho soltanto voluto creare dei personaggi e, creandoli, ho cercato di capire un po’ di più l’uomo. Il più delle volte, è attraverso i critici che ho appreso di avere in realtà voluto dire questa o quell’altra cosa. Ma scrivendo non lo sapevo, sono i critici che me l’hanno indicato.
Lacassin: Eppure ci sono temi costanti nella sua opera: l’incomprensione, la difficoltà di comunicazione fra i personaggi, fra padre e figlio, fra padre e figlia. Il rispetto della personalità altrui e il suo corollario, la rivincita dell’uomo umiliato. Colui che lotta contro l’establishment o contro le regole ecc.
Simenon: Sì, ma non ne ero cosciente mentre scrivevo. Mi creda. D’altronde scrivevo in un tale stato! Non dimentichi che finivo un capitolo di venti pagine in circa due ore, e che dopo avevo perso ottocento grammi. Abbiamo fatto l’esperimento con Teresa: lei pesava i vestiti che avevo prima di darmeli. Perché avevo dei vestiti che mi servivano solo per scrivere, era quasi una superstizione: due camicie sportive, una rossa e una scura a quadrettoni. Le avevo comprate a New York, e da allora ho sempre scritto tutti i miei romanzi con quelle camicie. Pesavano ottocento grammi in più dopo ogni seduta. Ottocento grammi persi con la traspirazione.
Lacassin: Facevano circa cinque chili e mezzo a romanzo.
Simenon: A romanzo, sì. Li recuperavo in meno di un mese, ma li perdevo in sette giorni… Allora, quando si scrive in quelle condizioni, le garantisco che non si pensa a formulare delle idee. Si pensa a identificarsi nel personaggio, a rimanere, così lo chiamavo, in stato di grazia. Cioè in stato di vacuità completa rispetto a me stesso per essere meglio l’altro. Allora, bisognava che ci rimanessi. All’inizio ho tenuto undici giorni, poi dieci giorni, poi nove giorni e alla fine sette giorni. Perché dopo sette giorni non riuscivo più a rimanere in questo stato di grazia, come le dico. Ed è perciò che i miei romanzi sono passati da undici capitoli a nove e poi a sette.
Lacassin: Insomma, scriveva in una sorta di trance. E questa trance è tanto più faticosa nella misura in cui riproduce in accelerato la crisi che attraversa il suo personaggio. I suoi romanzi sono sempre la narrazione di una crisi.
Simenon: Riprendo la frase di Balzac che le ho citato: Un personaggio è qualcuno che arriva fino al limite di se stesso. Se è per raccontare la vita di qualcuno a cui non succede niente, qual è l’interesse? In fondo, che cos’è il romanzo? È ciò che ha sostituito la tragedia greca. Ora non abbiamo più la tragedia. L’ha sostituita il romanzo.
Lacassin: Non c’è dunque alcun romanzo per il quale lei abbia una preferenza, ma si ricorda di qualcuno di essi che nella sua carriera abbia costituito ciò che lei chiama “tappe”?.
Simenon: Sì, sì, ce ne sono che hanno costituito delle “tappe”. Come I Pitard * è stata una tappa in un dato momento, La fuga del sig. Monde * lo è stata in un altro, così come La neve era sporca *... Ah, sì! Prima di La neve era sporca, c’è stato Tre camere a Manhattan *... Sicuramente altri, ma non so più. Sa, non sono più un professionista, non sono più un romanziere e non penso più da romanziere. Tutto questo per me è passato. Dirò persino che me ne sono completamente distaccato.
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* I titoli qui citati di Georges Simenon sono tutti pubblicati in Italia da Adelphi.
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Francis Lacassin Traduzione di Elga Mugellini |