Diario editoriale #72: il pensiero perduto
Scritto da: Ezio Quarantelli
Ritorno a questo Diario editoriale dopo circa due mesi e mezzo di silenzio.
Per giustificare questo lungo lasso di tempo potrei addurre molte buone ragioni: il trasloco dei nostri uffici (faticoso come tutti i traslochi), il Salone del Libro (una liturgia un po’ stanca, ma sempre molto impegnativa), le difficoltà di ogni giorno in un anno che registra per tutti gli editori un sensibile calo delle vendite e un vertiginoso aumento dei costi di produzione.
La verità, però, è un’altra: volevo sottrarmi a quella che mi appariva ormai come una routine e prendermi del tempo per pensare.
Pensare è un’attività che richiede calma, solitudine (se possibile), silenzio e nessuna scadenza.
Questo spiega perché oggi abbondino gli opinionisti, i divulgatori, i polemisti, ma scarseggino i veri pensatori. Dove si trova il tempo per pensare, se dobbiamo correre dietro all’ultimo dibattito, all’ultimo festival, all’ultimo premio, all’ultima polemica?
E del resto quale guadagno economico e mediatico può procurare una vita appartata, che non ceda al costante ricatto dell’esserci, dell’apparire?
Ma le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: il dibattito culturale è inesistente, quello politico è superficiale e ripetitivo. Mentre il mondo corre verso l’abisso (si legga l’ultimo, bellissimo libro di Susanna Tamaro:
I pifferai magici), una densa nebbia di chiacchiere prive di contenuto ci impedisce di vedere e affrontare i gravi problemi che ci fronteggiano.
Ne evoco due. Quella in cui viviamo è ancora una democrazia? La nostra è davvero una società pluralista?
Soltanto un ingenuo può pensare che il semplice fatto di essere di tanto in tanto chiamati a votare certifichi la democraticità di uno Stato. La democrazia, anche quella rappresentativa, si nutre di informazione corretta e completa, di partecipazione, di ideali, di progettualità. E necessita di quelle diverse forme di aggregazione (partiti, sindacati, movimenti ecc.) che indirizzano e strutturano la volontà dei cittadini. Non è poi sufficiente che una società consenta le pratiche più stravaganti perché la si possa considerare davvero pluralista. Perché si dia pluralismo serve un costante e vero confronto fra culture e valori diversi, che si dimostrino capaci di scontrarsi (quando è necessario), di dialogare (sempre), di cercare e trovare dei compromessi (spesso). Non basta insomma l’incontrollata proliferazione dei desideri e dei supposti diritti individuali.
E allora? Beh, a voi di tirare le conclusioni.
Io non so (come nessuno sa) come si concluderà quest’anno sfortunato, ma è certo che serve uno scatto, un colpo di reni da parte di quella che un tempo si chiamava “società civile”, se si vuole almeno provare a salvare il salvabile.