30
Settembre 2021
Peter Boghossian

Diario editoriale #60: ecco il nuovo totalitarismo. Leggete e fate leggere

Scritto da: Ezio Quarantelli

Cari amici, riprendo questa settimana il mio appuntamento con i lettori e lo faccio in una maniera un po’ speciale. Ho deciso infatti di pubblicare, per intero, la lettera di dimissioni dall’Università di Portland del professor Peter Boghossian. Leggetela con grande attenzione, e fatela circolare, perché racconta la nascita di un nuovo totalitarismo, di cui anche in Italia si scorgono i primi segni. Niente a che spartire, com’è ovvio, con certe terribili esperienze novecentesche. Piuttosto è la realizzazione della profezia orwelliana, quella di 1984, per intenderci. Ma non dovete credermi sulla parola. Leggete e giudicate voi stessi.

Un’ultima annotazione: il professor Boghossian non è un fondamentalista cristiano con venature razziste. Al contrario si è finora distinto per posizioni laiche e progressiste.

Ecco quello che ha scritto.

Gentile Rettrice Susan Jeffords,

Le scrivo oggi per porgere le mie dimissioni come professore assistente di filosofia alla Portland State University.

Negli ultimi dieci anni ho avuto il privilegio di insegnare in questa università. Le mie specialità sono il pensiero critico, l’etica e il metodo socratico, e ho insegnato Scienza e pseudoscienza e Filosofia dell’educazione. Ma oltre ad esplorare i filosofi classici e i testi canonici, ho invitato numerosi ospiti a intervenire durante le mie lezioni, dai terrapiattisti agli apologisti cristiani, dagli scettici riguardo al surriscaldamento globale agli attivisti di Occupy Wall Street. Sono orgoglioso del mio lavoro.

Ho invitato queste persone non perché condividessi la loro visione del mondo, ma proprio perché non la condividevo. E quelle conversazioni disordinate e impegnative hanno fatto emergere il meglio dai miei studenti: la capacità di mettere in discussione le credenze degli altri rispettando le persone, così come quella di mantenere la calma in circostanze difficili; ma anche la disponibilità a cambiare opinione.

Non ho mai pensato – e non lo penso ora – che lo scopo del mio insegnamento sia quello di condurre gli studenti a una particolare conclusione; piuttosto, è quello di creare le condizioni perché pensino in modo rigoroso, aiutandoli ad elaborare gli strumenti che gli serviranno a raggiungere le proprie conclusioni e a difenderle. Questa è la ragione per la quale sono diventato un insegnante e per cui amo insegnare.

Ma, poco alla volta, l'università ha reso questo tipo di indagine impossibile. Ha trasformato un bastione della libera ricerca in una fabbrica della giustizia sociale i cui soli input sono la razza, il genere e l’oppressione e i cui soli output sono disagio e divisione.

Agli studenti della Portland State non viene insegnato a pensare. Vengono addestrati a far propria la certezza morale delle ideologie. I docenti hanno rinunciato a quella che era la missione dell’università, ossia la ricerca della verità, per fomentare l’intolleranza nei confronti di credenze e opinioni divergenti. Questo ha generato una cultura dell’offesa in cui gli studenti hanno paura di parlare in modo aperto e onesto.

Abbastanza presto, già nei miei primi tempi alla Portland State, notai i segni dell’illiberalità che ha ormai inghiottito il mondo accademico. Vedevo studenti che si rifiutavano di considerare punti di vista differenti. Le critiche che, sollevate dai docenti nei programmi di educazione alla diversità, mettevano in discussione narrazioni approvate venivano immediatamente scartate. Coloro che chiedevano motivazioni fondate che giustificassero le nuove politiche istituzionali venivano accusati di micro-aggressioni. E professori venivano accusati di bigotteria per aver assegnato lo studio di testi canonici scritti da filosofi a cui era capitato di essere europei e maschi.  

All’inizio non mi ero reso conto di quanto tutto questo fosse sistematico e credevo di poter mettere in discussione questa nuova cultura. E così cominciai a fare domande. Esiste una qualche evidenza del fatto che i «trigger warnings» (avvertimenti sui contenuti di un libro, una lezione, ecc., che potrebbero risultare spiacevoli o traumatici) e gli «spazi sicuri» contribuiscano all’apprendimento dello studente? Perché la consapevolezza razziale dovrebbe essere la lente attraverso la quale vediamo il nostro ruolo di educatori? Perché abbiamo deciso che la «l’appropriazione culturale» è immorale?

A differenza dei miei colleghi, feci queste domande a voce alta e in pubblico.

Decisi di studiare i nuovi valori che stavano fagocitando la Portland State e tante altre istituzioni scolastiche: valori all’apparenza meravigliosi, come la diversità, l’equità e l’inclusione, ma che avrebbero potuto anche essere l’opposto. E più leggevo i principali testi di riferimento scritti dai teorici critici, più sospettavo che le loro conclusioni riflettessero i postulati di un’ideologia, e non conoscenze fondate sui fatti.

Iniziai a stabilire contatti con gruppi di studenti che avevano preoccupazioni simili alle mie e a coinvolgere interlocutori che affrontassero questi argomenti da una prospettica critica. E così mi risultò evidente che gli incidenti di illiberalità di cui ero stato testimone nei miei primi anni all'università non erano episodi isolati ma parte di un problema che coinvolgeva l’intera istituzione.

E più affrontavo apertamente questi argomenti, più ritorsioni ricevevo.

All’inizio dell’anno accademico 2016-17, un ex studente mi accusò e l’università avviò nei miei confronti un’indagine sul titolo IX (un procedimento che fa parte di una legge federale concepita per proteggere «le persone dalla discriminazione sessuale nei programmi di insegnamento o altre attività che ricevono un sostegno finanziario federale»). Il mio accusatore, un maschio bianco, mosse contro di me un sacco di accuse infondate che le norme di riservatezza dell’università sfortunatamente mi proibiscono di rivelare. Ma posso condivide questo: alcuni miei studenti interrogati durante il processo mi dissero che gli inquirenti gli avevano chiesto se sapessero che picchiassi mia moglie e i miei figli. Questo accusa orribile divenne presto un pettegolezzo diffuso.

In un’indagine di questo tipo non c’è un giusto processo, e così non avevo la possibilità di conoscere le accuse specifiche, né di confrontarmi con il mio accusatore e di difendermi. I risultati dell’indagine vennero rivelati a dicembre del 2017. Queste sono le ultime due frasi del verbale: «Global Diversity & Inclusion non ha trovato prove sufficienti sul fatto che Boghossian abbia violato le norme contro la discriminazione e le molestie sessuali della Portland State Univeristy. GDI raccomanda che Boghossian riceva un affiancamento».

Non soltanto non ricevetti delle scuse per le false accuse, ma coloro che avevo svolto le indagini mi dissero anche che in futuro non ero autorizzato a rendere pubblica la mia posizione riguardo alle «classi protette», o insegnare in modo tale che le mie idee sulle classi protette fossero conosciute. Una conclusione bizzarra ad accuse assurde. Le università possono imporre la conformità ideologica attraverso la minaccia di queste indagini.  

Mi convinsi che letteratura accademica corrotta fosse la responsabile per questo allontanamento così radicale dal ruolo tradizionale delle facoltà umanistiche e dal rispetto fondamentale nei campus. C’era il bisogno urgente di dimostrare che qualsiasi articolo moralmente alla moda – non importa quanto assurdo – poteva essere pubblicato. Credetti allora che esponendo i difetti teorici di quella letteratura avrei aiutato la comunità universitaria a non costruire edifici su un terreno così instabile.

Così, nel 2017, pubblicai insieme ad altri un articolo accademico volutamente ingarbugliato che prendeva di mira la nuova ortodossia dal titolo Il pene concettuale come costruzione sociale. Questo esempio di pseudo-ricerca, che venne pubblicato sulla rivista «Cogent Social Sciences», sosteneva che il pene fosse un prodotto della mente umana e responsabile del cambiamento climatico. Subito dopo rivelai che l’articolo era una bufala concepita per gettar luce sui difetti dei sistemi di valutazione tra pari e di pubblicazione accademica.

Poco dopo, svastiche con sotto il mio nome iniziarono a comparire nei bagni vicini al dipartimento di filosofia. Qualche volta comparvero anche sulla porta del mio ufficio, in un’occasione accompagnate da una sacchetto pieno di feci. La nostra università rimase in silenzio. Le volte in cui ha agito lo ha fatto contro di me, mai contro i colpevoli.

Continuai a credere, forse ingenuamente, che se avessi smascherato il pensiero fallace su cui si fondano i nuovi valori della Portland State avrei potuto destarla dalla sua follia. Nel 2018 pubblicai una serie di articoli assurdi o moralmente ripugnanti in riviste accademiche specializzate i questioni di razza e genere. In uno di questi sostenevamo che c’era un’epidemia di stupri di cani nei parchi per cani e proponevamo di legare gli uomini così come leghiamo i cani. Il nostro scopo era dimostrare che un certo tipo di «ricerca» non è interessato a comprendere la realtà ma a generare disagio sociale, proponendo una visione del mondo che non è scientifica né rigorosa.

Docenti e membri della facoltà erano così furiosi a causa degli articoli che pubblicarono un testo anonimo nella rivista degli studenti e la Portland State mi denunciò formalmente. L’accusa? «Comportamento scorretto nella ricerca», basata sulla premessa assurda che gli editori della rivista che accettarono i nostri articoli volutamente insensati erano «soggetti umani». Ero risultato colpevole di aver sperimentato su soggetti umani senza autorizzazione.

Nel frattempo l’intolleranza ideologica continuava a crescere alla Portland State. A maggio 2018 un professore ordinario interruppe una discussione pubblica che stavo tenendo con l’autrice Christina Hoff Sommers e i biologi evoluzionisti Bret Weinstein e Heather Heying. A giugno delle stesso anno qualcuno azionò l’allarme antincendio durante una mia conversazione con il famoso critico culturale Carl Benjamin. E ad ottobre un attivista scollegò gli altoparlanti per interrompere una conferenza con l’ex ingegnere di Google James Damore. L’università non fece nulla per affrontare e impedire questi comportamenti.

Gli anni seguenti sono stati un susseguirsi continuo di molestie. Trovavo volantini per il campus con la mia faccia con il naso di Pinocchio. Mi hanno sputato addosso e un passante mi ha minacciato mentre andavo a lezione. I miei studenti mi hanno informato di essere stati invitati dai miei colleghi a evitare le mie lezioni.

Mi piacerebbe poter dire che non ho dovuto pagare un tributo personale per tutto questo. Ma invece è proprio quello che ho pagato: una vita lavorativa sempre più intollerabile senza la garanzia di un incarico di ruolo.

Ma questo non riguarda me. Riguarda il tipo di istituzioni che vogliamo e i valori che scegliamo. All’inizio, ogni idea che è servita a far avanzare la libertà umana è sempre stata condannata, senza eccezioni. Come individui siamo spesso incapaci di ricordare questa lezione, ed è per questo che esistono le istituzioni: per ricordarci che la libertà di mettere in discussione è un nostro diritto fondamentale. E le istituzioni scolastiche dovrebbero ricordarci che questo diritto è anche un nostro dovere.

La Portland State University ha fallito in questo compito. E nel farlo ha deluso non solo i suoi studenti ma anche il pubblico che la sostiene. Sono grato che mi sia stata data l’opportunità di insegnare alla Portland State per più di dieci anni, ma ho chiaro ormai che questa istituzione non è un posto per coloro che vogliono pensare liberamente ed esplorare idee.

Questo non è ciò che avrei voluto, ma mi sento moralmente obbligato a prendere questa decisione. Per anni ho insegnato ai miei studenti l’importanza di vivere secondo i propri principi. Uno dei miei è quello di difendere il nostro sistema di educazione liberale da coloro che vogliono distruggerlo. Chi sarei se non lo facessi?

Cordialmente,

Peter Boghossian


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