Diario editoriale #43: la dubbia arte della recensione
Scritto da: Ezio Quarantelli
Ritorno sul piccolo e prezioso libro di George Orwell ( Sullo scrivere e sui libri), che esce proprio oggi in libreria per i nostri tipi, per offrirvene un assaggio.
In un pezzo dedicato alle recensioni, Orwell scrive: “Recensire libri in modo prolungato e indiscriminato è un lavoro particolarmente ingrato, fastidioso ed estenuante. Non solo obbliga a celebrare spazzatura – e lo fa, come dimostrerò fra un attimo –, ma anche a inventare di continuo reazioni nei confronti di libri per i quali non si prova spontaneamente alcuna emozione. Il recensore, per quanto nauseato possa essere, è interessato ai libri da un punto di vista professionale, e tra le migliaia che escono ogni anno, ce ne sono cinquanta o cento sui quali avrebbe piacere di scrivere. Se è un recensore di prima qualità, forse riesce a mettere le mani su dieci o venti di essi, ma più verosimilmente soltanto su due o tre. Il resto del suo lavoro, per quanto possa essere rigoroso nell’elogiare o condannare, è essenzialmente un imbroglio. Versa il suo spirito immortale giù per il canale di scolo, mezza pinta per volta. La stragrande maggioranza delle recensioni dà un resoconto inadeguato e fuorviante del libro di cui si occupa. (…) Non si può rimediare a tutto questo finché si continua a dare per scontato che ogni libro meriti di essere recensito. È quasi impossibile parlare di libri in grandi quantità senza celebrare in modo esagerato e volgare la maggior parte di essi. Finché si ha un rapporto professionale con i libri, non ci si rende conto di quanto la maggioranza sia pessima. Ben più di nove volte su dieci, l’unica critica oggettiva sarebbe: ‘Questo libro non vale niente’; mentre la vera reazione di un recensore sarebbe: ‘Questo libro non mi interessa in nessun modo, e non ne scriverei se non fossi pagato’. Ma il pubblico non pagherebbe mai per leggere questo genere di cose. Perché dovrebbe? Si aspetta una guida ai libri che gli vengono proposti accompagnata da un certo tipo di valutazione. Eppure, appena entrano in gioco giudizi di valore, la qualità viene meno. Perché se si dice – e ogni recensore dice questo genere di cose perlomeno una volta alla settimana – che Re Lear è una buona opera teatrale e I quattro uomini giusti è un buon thriller, qual è il significato della parola ‘buono’?”.
Niente male, vero? È uno scritto del 1946, e dunque sono passati 75 anni da allora, ma è cambiato qualcosa? Mi sembra lecito dubitarne.