Diario editoriale #18: come nasce uno scrittore?
Scritto da: Ezio Quarantelli
Ecco una domanda che sento spesso proporre con un sorriso di ironica sufficienza: servono davvero le scuole di scrittura? Se sono serie, evidentemente sì. Perché non dovrebbero servire? Nelle Accademie di Belle Arti si insegna a dipingere e scolpire, nei Conservatori si insegna a comporre. Perché non si dovrebbe insegnare a scrivere? Quale sciocco pregiudizio ci fa credere che non si possa imparare a scrivere un racconto? O un romanzo? O anche una poesia? Abbiamo smesso di credere nell’amore romantico e continuiamo a credere nell’ispirazione?
Questo però non significa che chi esce da una scuola di scrittura sia uno scrittore. È soltanto qualcuno che ha appreso delle tecniche. (Chi si è diplomato in composizione non è per questo un compositore. Chi si è diplomato in pittura non è necessariamente un pittore).
E non significa neppure che non si possano raggiungere ottimi risultati senza seguire nessun corso, ma lavorando da soli. Di autodidatti è piena la storia di qualunque arte e disciplina, anche se sono rari – molto rari – gli autodidatti “assoluti”.
Perché ci attardiamo in queste discussioni inutili? Le questioni che davvero importano per me sono altre.
In primo luogo non esiste scrittura letteraria senza che chi scrive abbia maturato una profonda consapevolezza di quello che significa scrivere. E questa consapevolezza si acquisisce studiando. Leggendo e rileggendo. Cercando di capire che cosa funziona e cosa no, e perché. Scrivendo e riscrivendo. Qualche volta imitando.
E poi la scrittura (la scrittura creativa, intendo) deve essere scelta e sposata, deve diventare una passione e un’ossessione, l’impegno di ogni giorno, la sfida, o la scommessa, più importante e più impegnativa.
Senza questa presa di coscienza e questa scelta “esistenziale” è difficile che si vada oltre un livello di semplice decenza.
Naturalmente si può scrivere senza particolari ambizioni: per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Per ricordare, per esprimere una parte di sé, per riflettere. Sono tutti usi leciti e dignitosissimi, che mi sento di incoraggiare convintamente, a condizione che non si pretenda di stare facendo letteratura.
Oggi si fa una grande confusione: in nome di una creatività mal intesa, si confondono ambiti che sono e devono rimanere distinti, e non per ragioni di “gerarchia”, ma semplicemente perché sono diversi.
Nessuno si neghi il piacere di scrivere, ma scelga il campo in cui vuole giocare.