
Coccioli non esiste, o forse sì
Scritto da: Alessandro Raveggi
Coccioli non esiste: è questo l’effetto che fa il mio romanzo, dicono. Perché Coccioli è evanescente come una nuvola, a voler citare l’epigrafe di Cocteau che ho scelto. Perché la sua molteplicità di vite e di libri coincide con il suo essere un fantasma vaporoso, fantasmatico persino nei confronti della lingua italiana, una sua lingua “infestata” di francese e spagnolo, come lui inquieta, elegante, irascibile, intelligente. Perché Coccioli è stato incredibilmente dimenticato, quanto ha fatto di tutto per farsi dimenticare, in un gioco a nascondino costante. Il suo Gioco del Mondo è stato un hide-and-seek, una vita al escondite, avrebbe detto lui. A tratti un peek-a-boo con critici e lettori, specie italiani. Ha fatto parecchie linguacce, Don Carlos.
Coccioli dunque come scrittore apocrifo a sé, e forse anche esistenza apocrifa: sono i suoi lettori sparsi per il mondo che ricreano ogni volta un personaggio-autore che in realtà non esiste se non depositato legalmente come Autore. Sono i suoi fanatici che ogni volta ricevevano risposte a quelle loro lettere così strampalate, ma magari le scrivevano gli assistenti e amanti di Coccioli stesso: Juanito, Javier, e gli altri suoi angeli custodi, invasati dello spirito di Carlo Coccioli. Questa vertigine ti prende anche leggendo le vertiginose sue opere, specie se le associ alle corrispondenze e ai molteplici diari (anche quelli che scivolano tra il francese e lo spagnolo e l’italiano). Un continuo travasare di menzogna e verità, personaggi fittizi e personaggi reali.
Ma Coccioli è anche esistito eccome, come corpo senziente: il suo corpo ha amato, ha sofferto, si è soffocato, ha schivato pallottole tedesche su per i monti emiliani e nelle campagne toscane, ha sofferto a vedere le trafitture dei fachiri libici, si è irrigidito o inturgidito in una notte francese in Rue du Cherche-Midi davanti a un giovane algerino, oppure in preda a uno spasmo quasi satanico nelle campagne dell’Alto Tevere, o ancora quasi affogato nel fango e nella nafta fiorentina dell’Alluvione del 1966. Da bambino, ha infine subito una operazione di mastoidite che entra nelle sue memorie come rito iniziatico circondato dalle amate zie e prozie.
Il corpo di Coccioli è quello che ho cercato di raccontare in Grande karma, se lo vediamo dal solo punto della biografia (e non lo è solo, una biografia). Mi interessavano le gesta – ma quelle tutti alla fine possono reperirle – però soprattutto i gesti del personaggio e dell’uomo. Pochi erano i documenti video disponibili. Molte certo le foto, ma il gesto di Coccioli mi era quasi impossibile da ricercare: sapevo che ogni tanto balbettava, sapevo che spesso tirava fuori l’accento toscano, non conoscevo le sue cicatrici, i suoi anfratti. Come il punctum di una fotografia, era però essenziale alla scrittura di Grande karma, almeno immaginarlo, completare il vuoto con il pieno. Quel corpo che il nipote Marco dichiarò simile a Jacques Tati, più snello e aitante da giovane – il giovane Coccioli francese che doveva essere garbato anche a Cocteau, sebbene non potesse competere con quell’adone greco-romano di Jean Marais sulla chiatta a bordo Senna del poeta francese. Il corpo infine un po’ imbolsito da anziano (complice la pelata da Budda che certo non favoriva…) con lo sguardo che gli si sfuocò quasi in una simulata demenza – gli occhi che erano di sua madre, pare - e che fu invece vigile e illuminante fino all’ultimo. Nel suo pianerottolo buddista dove attese la morte che lo chiamò spezzandogli il cuore – quanta ironia, in un uomo così innamorato.
Il corpo di Coccioli: non solo il cuore (mi viene in mente il cuore di Chopin riportato dalla sorella a casa, e ogni biografo per quanto anti-biografo ha con sé un po’ di feticismo) e giù fino agli intestini, gli intestini abbattuti dalla comida mexicana, quelli addolciti dal vino francese (ma non so, in effetti, se bevesse, e credo avesse quasi orrore dell’alcool, dopo l’esperienza con Juanito indemoniato di alcool) o quelli che uggiolavano un po’ negli anni Quaranta a Firenze dove l’autore dichiara, nella penuria che affliggeva la sua famiglia, di sconfiggere la fame con la lettura oppure di andare alla libreria Seeber a “leccare i libri” quali fossero ghiaccioli rinfrescanti e nutrienti più del cibo che scarseggiava allora.
È ovvio poi che per me, anti-biografo coccioliano del Grande karma, il corpo di Coccioli e la sua ricerca gestuale è stato anche il corpo dei suoi altri corpi: l’ombelico ventriloquo di Malaparte in costume a Capri, la testa febbricitante della mamma Mina, e il corpo sfuggente da Lawrence D’Arabia del padre Attilio a cavallo del suo cammello imperiale in Africa coi pantaloni alla zuava, la fisicità da aquila secca di Jean Cocteau, la testa tintinnante di una vecchiaia incipiente dell’amica Coco Chanel, il corpo impossibile da decifrare del satiro Michel che lo fece impazzire e quello infine da piccolo Klaus Kinski indio Javier Flores, l’ultimo suo erede. E i corpi dei suoi altri amanti. Sì, da anti-biografo mi sono dovuto addentrare persino nei suoi amplessi più porcini. E ovviamente ho dovuto sentire, vedere, immaginare i suoi angelici cani morire, i suoi cani cadere, i suoi cani farsi santi.
Insomma, posso dire che il mio romanzo è stato un corpo a corpo con l’assenza molteplice (l’ubiquità) di Coccioli e assieme con la presenza del suo corpo unico e storicamente ammaccato. Ad oggi, sapete cosa? Non sono sicuro che i suoi resti siano conservati nella tomba del cimitero di Atlixquillo, nello stato di Puebla, in Messico – non ci sono stato, ho visto solo un filmato, ho dubbi fondati. Qualcuno li avrà trafugati, forse lo stesso Coccioli, ancora vivo grazie a una potentissima pozione ayurvedica. Mi piace immaginare così infatti: che Coccioli, vecchissimo, siano ancora nascosto nella sua dacia in Texas e guardi i pomeriggi passare dalla finestra di cucina, pomeriggi lenti, eterni, davanti casa.