200 anni di Walt Whitman
Scritto da: Redazione
In occasione dei 200 anni dalla nascita di Walt Whitman (1819-1892), pubblichiamo la prefazione di Roberto Sanesi (1930-2001) alla raccolta di poesie da lui curata e tradotta.
Walt Whitman, poeta di un unico libro che gli vegetò e infittì fra le mani per decenni: e la sua voce personale, coscientemente, in uno sforzo che non conobbe pause, si estese al tentativo ambizioso di definire tutta una nazione.
– Roberto Sanesi
Nato il 31 maggio del 1819 a Long Island («Paumanok forma-di-pesce») da Walter Whitman, di antica origine inglese, e da Louisa Van Velsor, di origine olandese, Walt conobbe ben presto la libertà; anche per il fatto, se ne deduce, di essere stato il secondo di nove fratelli.
Della sua infanzia trascorsa fra boschi e praterie, in comunione con la natura, o più tardi a Brooklyn, dove il padre aveva trovato lavoro come carpentiere (anche qui in una diversa comunione – l’altro aspetto, popolare), gli rimase il ricordo e il modo di intendere la vita per tutti gli anni futuri. Dal 1825 al 1830 Walt frequenta le scuole elementari, e subito dopo passa di lavoro in lavoro: presso un avvocato, presso un medico, e infine, a quattordici anni, in una stamperia.
È l’inizio delle grandi letture, della scoperta di Walter Scott. A diciassette anni torna a Long Island come maestro di scuola, professione che lo vide poi in numerose altre cittadine costiere della zona. Nel 1839 fonda un giornale, il «Long-Islander». Ma la vera vita di Whitman ha inizio a New York nel 1841.
Egli comincia a scrivere poesie e racconti (in verità assolutamente mediocri), diviene direttore di alcuni giornali, e unisce alla passione letteraria la passione politica. È un acceso democratico, ma il clima conformista del tempo gli preclude ogni successo. Intanto, si aprono le prime linee ferroviarie, viene inventato il telefono, scoppia la guerra contro il Messico, in California si scoprono giacimenti auriferi. Whitman, non più il giovane provinciale alla scoperta della città ma ancora ansioso di vita, di avventura, e soprattutto di successo, parte nel 1848 per New Orleans: gli è stata offerta la direzione di un nuovo giornale. La città del Sud non fa per lui, anche se tanti colori e tanti contrasti in un primo tempo lo conquistano; e il soggiorno non dura più di tre mesi. Per molti, la fuga quasi improvvisa del poeta dovrebbe essere posta in relazione con una delusione amorosa. Pare si fosse innamorato di una creola francese, o spagnola, e che i parenti della ragazza si fossero opposti a causa di pregiudizi d’ordine religioso. Altri, fra cui il critico francese Paul Jamati, ritengono possibile anche un’interpretazione diversa: il poeta stesso avrebbe respinto da sé una passione che poteva precludergli un futuro letterario, sempre tenacemente perseguito. Tornato a New York, dove fonda il giornale «The Freeman», Whitman, con un improvviso mutamento d’umore, comincia a lavorare come carpentiere insieme al padre.
Nel 1855 esce la prima edizione di Leaves of Grass. Da questo momento fino al 26 marzo 1892, giorno della sua morte dopo tre mesi di agonia, la storia di Whitman e la storia di Leaves of Grass sono un’unica cosa.
Storia di un libro di poesia
Il libro al quale il poeta lavorò per più di metà della vita comprendeva, nella prima edizione, pochissime poesie, frutto di una fatica costante e lentissima.
Non si può certo dire che quelle cento pagine rilegate in verde, col titolo inserito in una fitta decorazione di foglie, avessero fortuna.
Delle 800 copie stampate ne fu venduta una, le altre vennero inviate a poeti, critici, riviste e amici. Nel migliore dei casi se ne ignorò l’esistenza. La «New York Tribune» e la «Putnam’s Magazine» se ne accorsero appena, e quello che potrebbe essere definito l’articolo più attento, apparso sulla «North American Review» a cura di un sacerdote, affermava che il libro non conteneva una sola parola che avrebbe potuto attrarre il lettore, tanto il linguaggio e le immagini erano rozzi e opachi. Il poeta Whittier gettò la sua copia nel fuoco. Le accuse di oscenità si moltiplicarono. Solo Emerson scrisse al poeta spingendolo ad avere fiducia e a continuare per la strada iniziata. Whitman, in ogni caso, non si arrese, e lo si può vedere dalle edizioni che seguirono la prima, ciascuna di esse volta a volta aumentata e riveduta:
1855 | – | Prima edizione. Circa ottocento esemplari di un centinaio di pagine, in ottavo, col titolo e l’indicazione «New York, Brooklyn, 1855». Senza nome d’autore. In basso, la tradizionale menzione «Tutti i diritti riservati a Walt Whitman». Di fronte al titolo del frontespizio, un ritratto del 1854: quello tratto da un dagherrotipo di McRae. |
1856 | – | Seconda edizione, con l’aggiunta di venti poesie e la lettera di Emerson. |
1860 | – | Terza edizione, con altre aggiunte. Il volume è suddiviso in quattro sezioni: Canti democratici, Foglie d’erba, Figli di Adamo e Calamus. |
1865 | – | In edizione separata appaiono Rulli di tamburo. |
1867 | – | Quarta edizione. Alcuni titoli sono modificati. I poemi più lunghi vengono suddivisi in sezioni numerate. |
1871 | – | Quinta edizione. Comprende Rulli di tamburo e In memoria del Presidente Lincoln. La seconda tiratura della stessa edizione include anche Il canto dell’esposizione e Passaggio per l’India. |
1872 | – | Sesta edizione, identica alla seconda tiratura della precedente. |
1876 | – | Settima edizione, detta «del Centenario» (il centenario della Dichiarazione d’indipendenza). In due volumi, comprende anche alcune prose. |
1881 | – | Ottava edizione. Il piano del volume è completo. |
1889 | – | Nona edizione. Include altre prose. Tirata in sole trecento copie, con sei ritratti dell’autore. |
1892 | – | Decima edizione, detta «del letto di morte». |
L'accordo del poeta con i fatti e il poema epico
Centro e circonferenza della propria opera, Walt Whitman sembra voler rifiutare ogni definizione critica. O meglio, sembra non esista definizione critica, astratta e inclusiva, in grado di chiudere con figura esatta una poesia che, come la sua, ha le stesse dimensioni ideali, lo stesso profilo dell’America. Forse perché, come qualcuno ha scritto, è raro che Whitman si ascolti. Su questo punto è necessario intendersi. L’apparente (e talvolta effettiva) incapacità del poeta di Long Island ad ascoltare sé stesso è il suo difetto e la sua qualità.
Dal dinamico oggettivarsi ed estraniarsi, in senso psicologico, d’ogni sua diretta esperienza; dal suo atteggiarsi quasi a demiurgo – e non a profeta, se non nel senso più antico e vero del termine, in cui ben poco esiste di una idea di preveggenza – fra una realtà percepita (raramente discriminata nei diversi aspetti qualitativi, come dimostrano certi opachi cataloghi, o investita da una attitudine alla trasformazione in chiave simbolica, così che gli oggetti non sono mai posti in relazione ma semplicemente citati, e ognuno, mela capanna filo d’erba o scure, resta fermo in una sequenza di figure autonome e concrete) e una realtà, sempre la stessa, da trasmettere con intenzioni didattiche, ma senza che in essa siano avvenuti mutamenti se non quelli nati dall’emergere, volta a volta, di un particolare isolato; dal suo frequente rifuggire da meditazioni introspettive; da tutto ciò può derivare, anche se solo in parte, quella mancanza di sottili modulazioni linguistiche di cui è stato accusato. In effetti, se il suo linguaggio, in senso di stile, è tuttavia sempre riconoscibile (il suo «non-stile», per molti), la sua lingua non lo è, o lo è soltanto per ragioni, ancora una volta nel senso dello stile oltre che in quello puramente filologico, negative. Il che non toglie, naturalmente, che a tratti anche la sua rozzezza, la sua foga incontrollata, la sua accettazione indiscriminata di slang e termini in disuso e definizioni non appropriate, la sua indifferenza a certi valori (ma non a quelli fonici) abbiano un fascino che deriva soprattutto dall’entusiasmo di cui è investita, dalla facilità e felicità oratorie del poeta. A prima vista stupisce, se si pensa che Whitman ebbe a rivelare di aver pensato spesso alle Foglie d’erba come soltanto a un esperimento di linguaggio. Eppure, sono poi le stesse ragioni a fare di questa poesia ciò che essa è, lontana da ogni modello, senza alcuna relazione con la poesia «colta» (non mi riferisco ai contenuti) di un Emerson o di un Poe, a permettere al poeta di manifestare – quasi pura da interventi, accolta da un lato e riproposta dall’altro con tutti i suoi oggetti rimasti tali, quasi l’autore si limitasse a spostarli – una realtà costituita veramente di uomini e cose, e di tutti i contrasti, di tutti i valori. Una realtà inclusiva.
Mi contraddico?
Ebbene, allora mi contraddico.
Ma Whitman non si contraddice. Se si contraddicesse vi sarebbe problematica. E non è, con questo, che nella sua poesia non esista; ma la sua problematica è coscientemente superata: la sua problematica è il superamento d’ogni problematica, quel superamento che tende a dare alla poesia una funzione morale. Sebbene Lawrence non riuscisse a coglierne che un solo aspetto, egli aveva ragione quando affermava che «Whitman è stato il primo eroico profeta che abbia avuto il coraggio di prendere l’anima per il collo e di cacciarla in mezzo ai rottami. “Lì” egli ha detto all’anima, “stai lì”. Stai lì, nella carne, nelle labbra e nel ventre. Nel petto e nell’utero. Stai lì, anima, nelle cosce dei negri, nel corpo delle prostitute, nella carne marcia del sifilitico, nella palude dove cresce il calamus».
La poesia di Whitman ha una funzione morale, e la sua morale più alta è questa, da cui derivano tutti gli altri aspetti di una posizione articolata sulla «simpatia», sull’abbraccio del mondo, su una completa unione senza peccato:
Io dico che l’anima non è più grande del corpo,
Io dico che il corpo non è più grande dell’anima.
[…]
Perché se il corpo non è l’anima, che cosa è mai l’anima?
Una morale ripetuta a ogni passo, variata nelle sue infinite possibilità, da cui deriva l’insistenza, caratteristica, su una sorta di panteismo vagamente misticheggiante che finisce con l’essere anche senso di socialità, sebbene vada oltre.
L’io diviene sempre l’altro, gli altri, e gli altri divengono l’io, in una fusione costante che, non essendo limitata alle presenze umane, condusse necessariamente il poeta a una volontà di «immersione totale»: il cui porto definitivo non poteva essere, dopo la coscienza dell’amore, che la coscienza della morte e il completo abbandono a essa. E si vedano, quasi paradigmi uniti e separati, identici e contrapposti, Out of the Cradle Endlessly Rocking con tutto il mistero espresso, mistero di felicità e sospetto di dolorosa e incomprensibile ambiguità, dal dialogo-canto-monologo; e Memories of President Lincoln, con l’accettazione e la sublimazione di una morte eroica e nello stesso tempo umana, più umana e toccante di quanto non fosse accaduto al poeta di puntualizzare fino allora in altri componimenti.
Se si analizzano le poesie di Whitman si scopre subito come gli accenti più alti e sinceri siano rintracciabili non quando il poeta sembra quasi voler dare ai suoi versi il possente tono di voce dell’attore Junius Booth tanto ammirato in giovinezza nei drammi di Shakespeare a Brooklyn, e cioè quando l’atteggiamento declamatorio rasenta il retorico, o, peggio, il meccanico (si vedano molte sezioni dei Songs del primo periodo e del periodo di mezzo), ma quando l’accordo con la natura diviene più stretto, quando la fusione fra la voce e il tema, fra l’io e l’altro-da-sé, è completa.
Allora non è casuale che tutto quanto v’era di deleterio scompaia, che le intemperanze programmatiche, le dichiarazioni, si affievoliscano. La sua poesia diviene programmatica, in senso positivo, ora che Whitman si è per un momento dimenticato delle sue intenzioni, ora che non si preoccupa che le sue intenzioni possano essere fraintese: il suo valore di denuncia, di esempio, risiede nel semplice fatto di essere. Il che non significa affatto, secondo un’opinione abbastanza comune, che ciò accada quando Whitman si abbandona a un flusso incontrollato. Contrariamente alle apparenze, Whitman è sempre molto presente a ciò che sta facendo:
Esprimere in forma letteraria o poetica, e senza compromessi, la mia propria persona fisica, emotiva, morale, intellettuale ed estetica, accordandola per mezzo dello spirito e dei fatti importanti dei suoi giorni immediati, e dell’America attuale – e di svolgere questa personalità, identificata nel tempo e nello spazio, in un senso molto più ingenuo e comprensivo che in qualunque libro o poema scritto sinora.
In questa volontà inclusiva, nella continua relazione di ogni aspetto di sé con ogni aspetto di ciò che sta fuori di sé fino a comporre un accordo di soggettivo e oggettivo che non è altro, in Leaves of Grass, che l’accordo del poeta con «i fatti importanti dei suoi giorni immediati, e dell’America attuale», si può forse perdere il disegno dell’opera (disegno in senso di struttura, per cui fallirà l’intenzione di intendere la somma delle poesie come poema epico secondo i modi tradizionali), ma non la sua logica, e cadrà anche l’interpretazione opposta, quella per cui Leaves of Grass non sarebbe che una serie discontinua di bozzetti poetici autonomi.
La poesia di Whitman raggiunge la profondità procedendo, come a pochi accade, in senso orizzontale, e può essere letta di conseguenza soltanto in senso estensivo.
--
Il libro
Walt Whitman tradotto da Roberto Sanesi